martedì 16 febbraio 2010

Il cibo nel motore


Quando vi dicono che devono sbocciare nuove rivoluzioni verdi, magari da far germogliare grazie a semi Ogm, riflettete un attimo su quanto cibo, già oggi, finisce nei serbatoi di chi ha soldi, anziché nello stomaco di chi ha fame. Faccenda duretta da digerire. Ecco di seguito un articolo che avevo scritto tempo fa, sempre per la rivista Slowfood (nel numero 34 di giugno 2008, che aveva un'intera serie di articoli dedicati ai biofuels).
Ma vi segnalo anche quello di Nicola Borello ("Chi paga il prezzo dei carburanti verdi") nel Quaderno speciale della rivista Limes dedicato a "Il clima del G2", uscito a fine 2009, e la campagna lanciata da ActionAid "Zero meals per gallon"



Domanda: che cos’hanno in comune gli orangutan del Borneo
a corto di alberi su cui arrampicarsi, i messicani che protestano
per i prezzi delle tortillas, gli italiani che fanno lo sciopero della
pasta e i contadini colombiani cacciati dalle loro terre per far
posto alle palme da olio? Risposta: devono tutti buona parte
dei loro guai ai biocarburanti. Ma come? Proprio quelli che ci
avevano spacciato per l’alternativa pulita all’oro nero, i combustibili
“verdi”, la soluzione a tanti, se non tutti, i guasti causati
da questa umanità scellerata che sta riscaldando il pianeta fino
a mettere a rischio la sua stessa esistenza? In fondo, una volta
bruciati nei motori, i biocarburanti dovrebbero rilasciare solo la
Co2 assorbita durante la crescita delle piante usate per produrli,
senza appesantire il fardello di gas serra del pianeta. Dove
stanno dunque le controindicazioni? Non sarà la solita manovra
delle multinazionali del petrolio, pronte a truccare le carte pur
di convincerci che non c’è alternativa all’oro nero?
Purtroppo, pare proprio di no. E se l’opposizione ai biocarburanti
ha unito nello stesso fronte (nei giorni della stretta di mano fra
Bush e Lula per il patto sull’etanolo del marzo 2007) Fidel Castro
e gli ultra-liberisti dell’Economist, qualcosa di storto ci dev’essere
davvero. Tant’è che si moltiplicano nel pianeta gli appelli a prendersi
una pausa di riflessione sui biocarburanti. Una moratoria di
cinque anni, per pensarci su prima di fare passi falsi.
Problema numero uno: si calcola che, per fare il pieno di etanolo
a un serbatoio da 50 litri, servano 232 chili di mais. Quanti
basterebbero a un bambino per sopravvivere per un anno, in
un mondo in cui un bimbo sotto i 10 anni muore di fame ogni 5
secondi. Moralismo demagogico e populista, dirà qualcuno, che
obietterà che c’è poco da fare i sofisti, visto che c’è di mezzo la
sopravvivenza del pianeta. Sfortunatamente, oltre a porre qualche
indigesto dilemma etico, i biocarburanti sembrano in molti
casi non riuscire a mantenere nemmeno quanto promettono. In
altre parole, possono risultare più dannosi che utili al pianeta.
Deforestazione
Prendiamo Indonesia e Malesia. Da anni le associazioni ambientaliste
(in specie Friends of the Earth e Greenpeace) denunciano
la deforestazione in corso per far posto alle coltivazioni
di palma da olio. E la situazione è peggiorata da quando,
oltre che per scopi alimentari e cosmetici, l’olio di palma è
prodotto ed esportato, in gran parte in Europa, per produrre
biodiesel. Ma l’incendio delle foreste non è un problema solo
per le tigri di Sumatra o per gli oranghi del Borneo… Le piante
sono serbatoi viventi di carbonio, liberato nel momento della
combustione sotto forma di Co2. Altri giacimenti di carbonio
sono le torbiere che occupano vaste aree di Malesia e Indonesia.
Anche quelle sono prosciugate per fare posto alla palma
da olio (nella sola Indonesia è già capitato a oltre 10 milioni di
ettari di torbiere), ma la torba essiccata è attaccata dai batteri
e rilascia a sua volta Co2 nell’atmosfera. Il risultato l’ha ricordato
di recente John Vidal, direttore della sezione ambiente del quotidiano
britannico Guardian: «L’Indonesia risulta ormai il terzo
maggior emettitore mondiale di anidride carbonica, dopo gli
Usa e la Cina. La distruzione delle sue torbiere ammonta già a
circa il 4% di tutte le emissioni mondiali».
I soliti scettici diranno che basterebbe controllare che la palma
da olio sia prodotta senza intaccare né torbiere, né foreste. Ma,
come ha rivelato a Greenpeace in un rapporto pubblicato a novembre
2007 un grosso distributore di prodotti alimentari, non
c’è modo di verificare la provenienza dell’olio di palma, perché
gli oli provenienti da diverse regioni o nazioni, sono mescolati
insieme, prima di essere spediti via nave. Come ci si può fidare
delle rassicurazioni governative quando, come ha documentato
Lucy Williamson della Bbc in un reportage di inizio 2007, il
capo del dipartimento delle foreste del Borneo «pur sapendo
quanta terra fosse stata destinata alle palme da olio, non sapeva
quanta foresta quella terra contenesse»? Meglio allora andarci
cauti anche con le dichiarazioni del governo brasiliano che,
data l’estensione del paese, giura di poter rifornire di etanolo
da canna da zucchero mezzo mondo, senza toccare un ettaro di
foresta amazzonica. Del resto, come denuncia Conservation International,
proprio in Brasile l’80% di un altro importantissimo
serbatoio di biodiversità, il cerrado, è già stato alterato per far
posto alle coltivazioni di soia e mais. La distruzione va avanti al
ritmo di 2 milioni di ettari all’anno.
Corn in the Usa
Le cose non vanno meglio nel caso dell’etanolo “made in Usa”,
anzi (vedi primo box qui sotto). L’etanolo da mais ha reso evidente un altro fatto:
mettere il cibo nel motore non è solo un problema etico (e ambientale),
ma economico. La rivolta dei messicani per il rincaro delle
tortillas e le proteste degli italiani per il prezzo della pasta nascono
in buona misura dal fatto che l’industria dei biocarburanti ha fatto
schizzare alle stelle la domanda di granturco, l’offerta ha faticato
ad adeguarsi e i prezzi sono saliti. Visto che il mais rendeva bene,
molti agricoltori si sono messi a coltivarlo, abbandonando gli altri
cereali, come il grano, rincarati a loro volta. Se poi si considera
che più di un terzo dei cereali serve a ingrassare le mandrie, si
può capire perché rincari siano stati annunciati da mezza industria
alimentare, dai produttori di polli alla Coca-Cola (i dolcificanti dei
soft drinks sono spesso ricavati dal mais). Gli ottimisti dicono che,
gradualmente, l’offerta si adeguerà alla domanda. Intanto, come
segnala l’aggiornamento di dicembre 2007 del rapporto Crop prospects
and food situation della Fao, nonostante il raccolto record di
cereali a livello mondiale (+ 4,6% rispetto al 2006), il consumo ha
superato la produzione per la settima volta negli ultimi otto anni.
Risultato: le scorte mondiali di cereali non erano così risicate dal
1983 e sono ormai pari, in giorni, a meno di due mesi di consumo.
In un mondo in cui, a causa dei cambiamenti climatici, siccità, inondazioni
o altri disastri ambientali, con conseguenti carestie, sono
destinati ad aumentare, non è quel che si dice una bella notizia.
I soliti ottimisti diranno che alti prezzi agricoli sono una benedizione
per i contadini di tutto il mondo. Ma, da un lato, che
l’aumento dei prezzi finisca nelle tasche di chi lavora la terra, è
tutto da dimostrare. Dall’altro lato, si dà il caso che proprio nel
2007, per la prima volta nella storia dell’umanità, la popolazione
urbana nel mondo abbia superato quella rurale. Un trend che è
destinato a durare. Sfortunatamente, è proprio per gli abitanti
di slums, bidonvilles e altre periferie urbane che il rincaro dei
generi alimentari di base può fare la differenza tra il sopravvivere
e il morire di fame. Non a caso, il citato rapporto della Fao
si chiude segnalando che, nel 2007, rivolte per il cibo sono state
segnalate in Messico, Marocco, Uzbekistan, Yemen, Guinea,
Mauritania e Senegal. E si è arrivati anche al paradosso oltraggioso,
segnalato da Monbiot sul Guardian del 6 novembre 2007:
in Africa, a fine ottobre, il governo dello Swaziland ha deciso di
concedere migliaia di ettari per la coltivazione di manioca. Non
per sfamare i circa 400 000 abitanti dello Stato colpiti dalla carestia,
ma per alimentare una fabbrica di etanolo.
Insomma, quanto predetto nel luglio 2006 da Lester Brown, fondatore
del Worldwatch Institute e oggi direttore dell’Earth Policy
Institute, che cioè supermercati e stazioni di servizio sarebbero
entrati in competizione per i cereali, sta già avvenendo. Tanto
che gli anglosassoni, che adorano i neologismi, ne hanno già coniato
uno ad hoc: agfl ation, cioè inflazione di origine agricola.

La corsa ai biocarburanti
Purtroppo, il peggio deve ancora venire. L’etanolo, secondo
quanto ha scritto Harriett Williams sull’Ecologist del marzo
2007, ha coperto nel 2005 solo lo 0,8% della distanza percorsa
in quell’anno da tutti i veicoli circolanti al mondo. Ma Bush,
nel discorso sullo Stato dell’Unione 2007, ha detto di puntare a
sostituire con l’etanolo, in 10 anni, il 20% dei carburanti tradizionali.
Cosa che, come fanno notare Andrea Cappelli e Silvano
Simoni su Limes, «comporterebbe una produzione a regime
di 132 miliardi di litri di etanolo da mais, per la quale, a oggi,
sarebbe necessario disporre di 1,3 volte l’intera produzione
di mais statunitense!». Gli obiettivi dell’Unione Europea sono
appena meno ambiziosi: utilizzare il 5,75% di biocarburanti
entro il 2010. In questo caso si calcola che basterebbe “solo”
il 35-40% di tutta la terra arabile. Ma il passo successivo sarebbe
di arrivare al 20% nel 2020. Domanda retorica: ma non
sarebbe molto più sensato imporre alle case automobilistiche
standard per diminuire di percentuali corrispondenti i consumi
delle auto? Peccato che, come ha calcolato sempre Harriett
Williams, costruttori e venditori di auto Usa abbiano versato, a
partire dal 1989 (ed escludendo la campagna in corso), circa
105 miliardi di dollari nelle casse dei partiti politici americani
(per il 75% in quelle dei repubblicani) e che la Archer Daniel
Midlands, che da sola coprirebbe circa un terzo della produzione
di etanolo Usa, sia anch’essa fra i grandi sponsor del partito
repubblicano. Quanto alle case europee, si è ormai fatto
il callo al loro stracciarsi le vesti e predire collassi economici
ogni volta che Bruxelles impone vincoli anti-inquinamento ai
veicoli (in compenso è stata di recente presentata una Ferrari
a bioetanolo…).

Una moratoria di 5 anni
A questo punto, non dovrebbe essere difficile capire perché da
più parti si chieda una moratoria di cinque anni sulla produzione
di biocarburanti. Ha iniziato Monbiot, in un articolo pubblicato
dal Guardian il 27 marzo 2007. È partita poi una petizione
via internet (http://www.econexus.info/biofuels.html), sottoscritta
da centinaia di associazioni e privati cittadini. E, nel
gennaio di quest’anno, si è aggiunto al coro l’Environmental
Audit Committee della Camera dei Comuni inglese (il che non
ha trattenuto la Gran Bretagna e l’Ue dal procedere nei piani di
sviluppo dei biocarburanti).
Jean Ziegler, relatore speciale dell’Onu per il diritto al cibo, ha
chiesto la moratoria, nell’ottobre 2007, all’Assemblea Generale
delle Nazioni Unite, per mettere un freno ai rincari dei generi
alimentari di base. «L’International Food Policy Research
Institute (Ifpri)» ha ricordato Ziegler nel suo rapporto «prevede
che il numero di persone malnutrite cresca di 16 milioni
per ogni incremento di un punto percentuale nel prezzo reale
dei generi di prima necessità». E Joachim von Braun, direttore
dello stesso Ifpri, in un articolo scritto a settembre 2007 per
la Swiss Agency for Development and Cooperation, aggiunge
che «escludendo progressi tecnologici e l’adozione di regolamentazioni
basate su standard trasparenti, ci attendiamo
un aumento fra il 20 e il 40% dei prezzi alimentari da qui al
2020». La moratoria, nelle intenzioni di Ziegler, servirebbe
a concentrare la ricerca sui biocarburanti ottenuti da piante
non alimentari capaci di crescere su terreni aridi o semi-aridi,
come la jatropha o le alghe, a perfezionare le tecnologie
necessarie per i biocombustibili di “seconda generazione”
(vedi secondo box qui sotto), in cui l’etanolo è ottenuto per via cellulosica da
arbusti o scarti alimentari, e a creare le condizioni per far sì
che il business dei biocarburanti benefici davvero i contadini
e non solo le grandi corporations.
Fino ad allora, però, molto meglio continuare a mettere il cibo
nei piatti di chi ha fame, che nei serbatoi di chi ha soldi.


Di seguito i due box pubblicati a corredo dell'articolo
L’etanolo da mais
Gli studiosi concordano nel ritenere il mais la peggiore delle fonti di etanolo possibili. Considerando rese per ettaro, quantitàdi acqua e fertilizzanti necessari alla crescita ed energiaimpiegata nel processo produttivo, l’etanolo da mais rendenei motori meno di una volta e mezzo l’energia consumata perprodurlo (quello da canna da zucchero 8 volte, il biodieselda olio di palma 9). Eppure, negli Usa è in corso una vera epropria corsa all’etanolo, generosamente sussidiata dal presidenteBush, il quale si è anche premurato, alla faccia dellestrette di mano uffi ciali, di imporre una tariffa d’importazionesull’etanolo brasiliano, per metterlo fuori mercato negli StatiUniti. Bush, nel discorso sullo Stato dell’Unione 2007, ha tiratoin ballo il patriottismo e gli eroici agricoltori statunitensi chelimiteranno la dipendenza dai tanti stati-canaglia ricchi di oronero. Ma la verità l’ha forse detta ancora l’Economist, in unarticolo del 18 febbraio 2007: «L’etanolo è popolare perchéappare una opzione facile. Non richiede tasse più alte o razionamenti,fa felici gli agricoltori e fa apparire che il governostia facendo qualcosa. Purtroppo, affrontare il riscaldamentoglobale è probabile sia ben più doloroso».

Maneggiare con cura
Foglie di banana, gambi di frumento e granturco, pannocchiesgranate di mais, bagassa (la parte fi brosa della canna dazucchero). Scarti, insomma. Potrebbero essere loro i nuovi“giacimenti” di biocarburanti. A patto che si trovi un modoeconomico per ricavare l’etanolo per via cellulosica. Le potenzialitàsono enormi. Basti pensare che mentre le emissionidell’etanolo da mais nel suo intero ciclo di vita (coltivazione,produzione, trasporto e combustione) sono pari a 77 grammidi Co2 per mega Joule (quello della benzina è 94 g/MJ), perquello ricavato in via lignocellulosica sono di soli 11 g/MJ. E,trattandosi di scarti, non ci sarebbero confl itti con il mercatoalimentare. Il problema è che, per ricavare etanolo in questomodo, servono enzimi, al momento troppo costosi per rendereil procedimento economicamente competitivo. Ma esperimentiin tal senso si stanno già facendo con i pioppi in Sveziae con i salici in Nuova Zelanda.Altra frontiera è quella di utilizzare le alghe, allevate in mare oin bacini chiusi, alimentandole con scarichi fognari, per produrrebiodiesel. Anche in questo caso le rese promettono diessere altissime: fi no a 100 tonnellate di olio per ettaro, cioèquasi 250 volte la resa della soia. Ma anche qui la sperimentazioneè solo agli inizi, anche se la Shell ha annunciato, l’11dicembre scorso, l’apertura di un impianto dimostrativo nelleisole Hawaii.Certo, anche per i biocarburanti di seconda generazione irischi non mancano. Gli Ogm scacciati dalla porta potrebberorientrare dalla fi nestra, visto che già si favoleggia di enzimitransgenici e alberi geneticamente modifi cati per abbatterneil contenuto di lignina. E Craig Venter, uno dei mappatori delmenoma umano, a dicembre, nella sua Richard Dimbleby lecture alla Bbc, ha addirittura prospettato di risolvere i problemienergetici planetari creando in laboratorio batteri in grado disintetizzare carburanti da fonti rinnovabili.Inoltre, anche le piante non alimentari, come la jatropha,potrebbero rivelarsi deleterie se coltivate su larga scala damultinazionali o grandi possidenti stranieri, pronti a scacciarecon la forza i piccoli agricoltori dalla terra su cui hannomesso gli occhi.Insomma, anche i biocarburanti di seconda generazione andrannomaneggiati con cura e non certo abbandonati alla“mano invisibile” del mercato. Forse però, una volta fi ssati ipaletti giusti, potrebbero davvero diventare, come si augurano Andrea Cappelli e Stefano Simoni su Limes, «non unprodotto diabolico, che affama i poveri per dare ai ricchi ilcombustibile per i loro suv, ma un prodotto democratico, chepotrebbe consentire una vera crescita economica e sociale apaesi da sempre ai margini del mondo che conta».

giovedì 11 febbraio 2010

Il vero costo della costata


E, dopo il pesce, ecco qualcosa che avevo scritto sul consumo di carne, sempre per la rivista Slowfood. Spero che la lettura non risulti troppo indigesta...

“Molta gente va in palestra il lunedì. Con i “lunedì senza carne”, sarà un po’ come andare in palestra, ma con il vantaggio aggiuntivo di proteggere il pianeta”. Quando, a fine giugno 2008, l’ex beatle Paul McCartney lanciò, dalle colonne del magazine “The Grocer”, la proposta del “lunedì senza carne”, i più avranno scrollato le spalle, pensando fosse solo la stravaganza di una popstar vegetariana: che c’entrerà mai una bistecca con la salvezza del pianeta?
Quando però, due mesi e mezzo più tardi, la stessa proposta di un giorno alla settimana meat-free venne fatta da Rajendra Pachauri, a qualcuno sarà venuto il sospetto che la bistecca qualcosa c’entrasse davvero. Perché Pachauri è il presidente dell’Ipcc (Intergovernmental panel on climate change), l’organismo Onu che si occupa di cambiamenti climatici, premiato nel 2007 con il Nobel per la pace. Uno, insomma, che di minacce ambientali se ne intende.
Per spiegare quale fosse il costo ecologico della costata, Pachauri ha servito ai 400 invitati al Savoy Place di Londra per la Peter Roberts memorial lecture (promossa dal gruppo Compassion in World Farming)[1], una serie di dati piuttosto indigesti, tratti in gran parte da un recente rapporto della Fao, inquietante già dal titolo: Livestock’s long shadow[2] (l’ombra lunga dell’allevamento).

L’ombra lunga dell’allevamento
Per capire quanto sia lunga tale ombra sul futuro del pianeta, ecco alcuni dati del rapporto Fao. L’allevamento produce l’80% delle emissioni di gas serra di tutto il comparto agricolo e il 18% del totale complessivo mondiale di emissioni. Più, sorpresa, di quante ne produca il settore trasporti. Ad essere più precisi, il 9% delle emissioni totali di anidride carbonica (soprattutto a causa delle foreste bruciate per far posto ai pascoli), il 37% delle emissioni totali di metano (un gas serra 23 volte più potente della CO2, rilasciato, in questo caso, dal “tubo di scappamento” dei ruminanti) e, causa soprattutto il letame, il 65% di quelle di ossido d’azoto (296 volte più potente della CO2). In aggiunta, all’allevamento si deve anche il 64% delle emissioni di ammoniaca, che contribuisce in modo significativo alle piogge acide e all’acidificazione degli ecosistemi.
Ma l’ombra lunga dell’allevamento si estende anche altrove. Ad esso, dice la Fao, è riconducibile l’8 per cento dell’uso mondiale di acqua potabile e buona parte del suo inquinamento. “Statistiche mondiali non sono disponibili – fa notare il rapporto – ma negli Stati Uniti l’allevamento si stima sia responsabile del 55% dell’erosione dei suoli e dei sedimenti, del 37% dell’uso totale di pesticidi, del 50% dell’uso di antibiotici e di un terzo del carico di azoto e fosforo nelle fonti di acqua potabile”.
Magari vi si sta già guastando l’appetito. Ma non è finita. Sempre secondo il rapporto Fao, 3 miliardi e 433 milioni di ettari (il 26% dell’intera superficie terrestre libera dai ghiacci) sono dedicati al pascolo. E circa il 20 per cento di tali terreni (con punte del 73% nelle aree più aride) sono, in misura maggiore o minore, degradati.
Deforestazione, erosione dei suoli, inquinamento delle acque non possono che avere, a loro volta, un impatto sulla perdita di biodiversità. E, al riguardo, la Fao ricorda che, secondo la Iucn (World Conservation Union), autrice della Red List delle specie minacciate, circa il 10 per cento di queste ultime soffrono di perdita dell’habitat a causa dell’allevamento.
E queste sono le medie globali. A livello locale, le cose possono andare anche peggio. L’acqua potabile per dissetare le mandrie, ad esempio, a livello mondiale pesa per meno dell’1 per cento dell’uso totale. Ma in Botswana, ad esempio, la percentuale sale al 23 per cento. E se il contributo dell’allevamento alla produzione di gas serra è, a livello globale, del 18 per cento, in Brasile ammonta a ben il 60 per cento del totale nazionale.
E questo potrebbe essere solo l’antipasto. Perché altri milioni di commensali, soprattutto nei grandi giganti asiatici in crescita (Cina e India), stanno per aggiungersi al banchetto. “La produzione globale di carne – si legge ancora nel rapporto Fao – è destinata a più che raddoppiare, da 229 milioni di tonnellate nel 1999/2001 a 465 milioni di tonnellate nel 2050, e quella di latte da 580 a 1043 milioni di tonnellate”. In assenza di correttivi, aggiunge il rapporto “se la produzione raddoppia, anche il danno ambientale raddoppierà”.



I polli di Trilussa
Certo, mai come in questo caso, vale il detto di Trilussa: se una persona mangia due polli e uno nessuno, per la statistica è come se ne avessero mangiato uno a testa. Il problema del consumo di carne cambia a seconda della parte del mondo da cui lo si guarda. L’allevamento, ricorda la Fao, rappresenta solo l’1,4% del Pil mondiale (anno 2005). “Ma – aggiunge il rapporto – in termini di mezzi di sostentamento, introiti e impiego è molto più importante di quanto suggerirebbe il suo modesto contributo all’economia mondiale”. Ad esempio, esso fornisce un supporto vitale a circa 987 milioni di poveri che vivono nelle aree rurali (pari al 36 per cento di tutti quelli che vivono con meno di due dollari al giorno). E, come ha rivelato uno studio condotto in Kenya e pubblicato nel 2003, “i bambini hanno dimostrato di trarre grandi benefici, in termini di salute sia fisica che mentale, da un modesto aumento di latte, carne o uova nella loro dieta”. Per contro, i prodotti di origine animale danno, come noto, il loro contributo ai problemi di salute del miliardo di persone adulte sovrappeso (e ancora più a quelli dei 300 milioni di obesi mondiali), sempre più spesso colpite da diabete, malattie cardiovascolari e vari tipi di tumori.
Tutto ciò non stupirebbe peraltro la buonanima di Trilussa, visto che, sempre secondo la Fao, un indiano mangia in media solo 5 chili di carne l’anno, mentre uno statunitense 123 (dati 2003).

Bocconi indigesti
A questo punto, dovrebbe essere chiaro per chi, fra ricchi e poveri, suona la campana dell’astinenza dalla carne. Ma il giorno senza carne proposto da McCartney e Pachauri (e si potrebbe aggiungere l’oncologo ed ex ministro Umberto Veronesi, che di giorni senza carne ne propone due alla settimana[3]), servirebbe davvero a qualcosa? Il presidente dell’Ipcc, nella citata conferenza, si è dilettato a fare qualche esempio. Gustoso. Per una cena a base di riso (226 grammi), cavolfiori (113,4 grammi), melanzane e broccoli si emettono in media gas serra pari a 181 grammi di CO2. Una bistecca di manzo da 170 grammi ne fa emettere 25 volte tanto: oltre 4 chili e mezzo. Se preferite, per produrre un chilo di carne di manzo si emettono gas serra equivalenti a 36,4 chili di CO2 (pari a quelli che un’auto di media cilindrata emette in 250 chilometri) e si consuma altrettanta energia che quella di una lampadina da 100 watt accesa per 20 giorni.
Non va meglio se fate il conto in litri d’acqua: per produrre un chilo di carne di manzo ne servono 15.500 litri. Per un chilo di mais ne bastano 900, per uno di riso 3 mila, per un chilo di pollo 3.900 e per uno di maiale 4.900. Tirando le somme, ha sintetizzato Pachauri, “con un ettaro coltivato per produrre verdure, frutta, cereali, si possono sfamare fino a 30 persone. Se lo stesso ettaro viene utilizzato per produrre uova, formaggio e carne, si sfamano al massimo da 5 a 10 persone”. E, in settant’anni di vita, un vegano (che oltre alla carne rifiuta anche pesce, uova e formaggio) fa risparmiare al nostro inquinatissimo pianeta circa 100 tonnellate di CO2 equivalente.
Volendo, si può vedere la faccenda anche in modo diverso. Tornando al parallelo con l’inquinamento causati da auto, camion e altri mezzi di trasporto. Secondo uno studio americano[4], passare da una dieta “carnivora” a una vegetariana equivarrebbe a passare dalla guida di un Suv a quella di una Toyota Prius (l’ormai celebre auto ibrida benzina-elettricità).


Il buon esempio
Come per le emissioni di gas serra legate a industrie e trasporti, anche per quelle legate al consumo di carne spetterebbe al ricco Occidente dare il buon esempio. E qualche rinuncia non dovrebbe essere difficile se, come ha calcolato Caroline Davies dell’Observer, un inglese, nell’arco della sua vita, mangia in media l’equivalente di 8 manzi, 36 pecore, 36 maiali e 550 tra polli, galline e affini.
Non ci sono invece molte speranze di evitare che i popoli in via di sviluppo continueranno a fare il possibile per assicurarsi preziose proteine di origine animale. Né ci sarebbe da augurarselo, se si pensa che, ad esempio, come ricorda la Fao, un ricerca di lungo periodo condotta in Kenya ha dimostrato che “soprattutto i bambini hanno dimostrato di beneficiare grandemente, in termini di salute sia fisica che mentale, quando modeste quote di latte, carne o uova sono aggiunti alla loro dieta”. Difficile, quindi, non condividere quanto si legge nel rapporto Fao poche righe più avanti: “Si potrebbe ben argomentare che il danno ambientale dell’allevamento potrebbe essere significativamente ridotto diminuendo l’eccessivo consumo di prodotti dell’allevamento tra i popoli ricchi”. Altrettanto condivisibili le raccomandazioni Fao a “internalizzare” i danni ambientali dell’allevamento nel costo di carne, uova e prodotti lattiero-caseari, a sfruttare il biogas per ridurre gli scarichi inquinanti e produrre energia, o l’invito a migliorare i sistemi di irrigazione, fermare la deforestazione e introdurre sistemi di coltivazione più rispettosi della terra. Meno condivisibile, semmai, è la convinzione degli estensori del rapporto che ci sia “il bisogno di accettare che l’intensificazione e forse l’industrializzazione della produzione di bestiame sia l’inevitabile esito di lungo termine del processo di cambiamento strutturale in corso per la maggior parte del settore”.
Insomma, sull’altare dell’efficienza rischia di essere immolata ogni speranza di tornare a forme di allevamento più in armonia con in ciclo naturale delle cose.

La carne non è tutta uguale
Non a caso, contro queste conclusioni si scaglia, dalle colonne dell’Ecologist di ottobre 2008, Simon Fairlie, direttore della rivista ambientalista The Land. Che oppone all’allevamento industriale le virtù di quello, per così dire, marginale (default livestock): “Molti contadini in mondo in via di sviluppo dipendono da ruminanti alimentati con erba per trazione, letame, carburante e latte (…). Sbarazzarsi di queste mucche per ridurre le emissioni di metano sfocerebbe in un aumento della fame. Per contro, sbarazzarsi del sistema Usa dei feedlots (i tipici allevamenti di ingrasso statunitensi, ndr), nei quali i manzi da carne sono ingrassati con una dieta basata sui cereali, sarebbe un beneficio per tutti”. E Richard Young, consigliere della Soil Association, nelle stesso numero dell’Ecologist (in un articolo dal titolo significativo: “Not all meat is created equal”, non tutta la carne è uguale) conclude: “I messaggi semplicistici “non mangiate carne” o “la carne rossa è nociva” rischiano di far più male che bene. C’è una crescente evidenza che un più sensato ed ecologicamente responsabile messaggio salutistico per i consumatori inglesi sarebbe incoraggiare la gente a mangiare meno carne e a mangiare carne di animali alimentati con erba; e pecore, biologiche se possibile; e polli e maiali biologici”.
Tendendo sempre in mente, aggiungiamo noi, quello che il poeta-contadino Wendell Berry scriveva già nel 1989: “Chi consuma cibo deve rendersi conto che l’atto di mangiare ha luogo inevitabilmente nel mondo, che è inevitabilmente un atto agricolo e che il modo in cui mangiamo determina in misura considerevole il modo in cui si usa il mondo”[5].
Luca Angelini

[1] La registrazione audio dell’intervento di Pachauri è scaricabile all’indirizzo http://coinet.org.uk/discussion/climate_radio/drrp. Le slides dell’intervento sono invece disponibili all’indirizzo http://www.ciwf.org.uk/includes/documents/cm_docs/2008/l/london_08sept08.pps
[2] Il rapporto è disponibile all’indirizzo http://www.fao.org/docrep/010/a0701e/a0701e00.htm

[3] Corriere della Sera, 25 settembre 2008, pagina 11.
[4] ESHEL Gidon e MARTIN A. Paula, “Diet, Energy, and Global Warming”, in Earth Interaction, volume 10 (2006), paper 9, pp. 1-17. Scaricabile all’indirizzo http://geosci.uchicago.edu/~gidon/papers/nutri/nutriEI.pdf

[5] BERRY Wendell, “Il gusto di mangiare”, in La risurrezione della rosa, Slow Food editore 2006, p.131.

martedì 9 febbraio 2010

Tanto per cominciare


Visto che non so che pesci prendere per cominciare, ecco un mio articolo a proposito di pesci, pubblicato sulla rivista Slowfood come presentazione di Slowfish 2009

Immaginate di essere un cercatore di funghi. E di avere a disposizione un bosco tutto per voi. Potreste senz’altro trovare funghi in abbondanza. E seguire senza sforzo il saggio precetto di ogni cercatore giudizioso: raccogliere solo quelli più grossi e lasciare agli altri il tempo di crescere. Se, però, l’anno dopo, i cercatori di funghi aumentassero, per voi comincerebbero i problemi. Per trovare la stessa quantità di funghi, dovreste svegliarvi prima il mattino e passare più ore nel bosco. Se l’anno successivo i cercatori crescessero ancora, probabilmente neanche passare più ore nel bosco basterebbe a riempire il vostro cestino. Vi toccherebbe accontentarvi di funghi più piccoli, anche se questo potrebbe mettere a rischio la loro ricrescita. E se, di anno in anno, i cercatori continuassero a moltiplicarsi, è facile prevedere cosa accadrebbe: dal bosco finirebbe per uscire la stessa quantità di funghi, ma ripartita in molti più cestini. Vale a dire che ogni cercatore tornerebbe a casa, come voi, sempre più stanco e sempre meno soddisfatto del bottino.
Poi, a causa della raccolta troppo precoce dei piccoli funghi e dei danni provocati dall’eccessiva presenza di cercatori, anche la quantità complessiva di funghi inizierebbe a diminuire. Risultato: nel bosco entrerebbero sempre più cercatori ed uscirebbero sempre meno funghi. Uno spreco di tempo, fatica e denaro.
A quel punto, se qualcuno vi dicesse che la soluzione è far entrare nel bosco molti più cercatori (magari incentivandoli con sconti sull’acquisto degli scarponi o della benzina per raggiungere il bosco) e con cestini molto più grandi, lo prendereste quasi di sicuro per matto.
Eppure, se invece di funghi si parla di pesci e di mari e oceani, invece di boschi, è proprio quello che si è scelto di fare.
Le conseguenze si possono leggere in un rapporto pubblicato nell’ottobre scorso dalla Banca Mondiale e dalla Fao[1]. Il titolo parla da sé: The Sunken Billions, ovvero “I miliardi sommersi”. Quelli persi ogni anno per il cattivo (ed eccessivo) sfruttamento della pesca.
Prima avvertenza: come indica già il sottotitolo (The economic justification for fisheries reform), nel rapporto ci si occupa solo di economia e di pesca come attività produttiva in senso stretto. Nel calcolo dei miliardi sommersi non entrano, per dire, i costi in termini di danni agli ecosistemi e alla biodiversità marina[2] (del resto, la Banca Mondiale non è, notoriamente, un covo di attivisti verdi), o quelli alla pesca turistica. Per questo, gli autori del rapporto premettono che le loro stime sono “conservative”, cioè approssimate per difetto. Seconda avvertenza: i dati e le stime della Fao, su cui si basa il rapporto, non tengono conto della pesca illegale o non registrata. Anche in questo caso, i numeri potrebbero essere dunque più “ottimistici” del dovuto[3].
Proprio per quello, fanno ancora più impressione. I miliardi di dollari buttati a mare sarebbero, per la Banca Mondiale, ben 50 ogni anno (e addirittura 2.200 dal 1974, anno del primo rapporto Fao sullo “State of marine fisheries”, al 2007). Fate due conti: al cambio attuale (1,36 dollari per euro, mentre scriviamo) fanno circa 36,7 miliardi di euro l’anno. Cento milioni di euro al giorno. Quasi 1.200 euro ogni secondo che passa mentre leggete questo articolo.
La diagnosi di Banca Mondiale e Fao è impietosa: ”La costruzione di una flotta peschereccia sovrabbondante, l’impiego di tecnologie di pesca sempre più potenti e l’incremento dell’inquinamento e della perdita di habitat hanno impoverito gli stock di pesce in tutto il mondo. A dispetto degli accresciuti sforzi di pesca, le catture marine mondiali sono rimaste stagnanti per oltre un decennio, mentre il capitale naturale di pesci – cioè la ricchezza degli oceani – è diminuita.”[4] Sembra la fotocopia del nostro bosco immaginario. Ancor di più quando gli autori del rapporto parlano delle due principali conseguenze di questa situazione: “Primo, stock di pesce impoveriti significano che c’è semplicemente meno pesce da pescare e, quindi, il costo delle catture è più alto di quel che dovrebbe essere. Secondo, la massiccia sovracapacità delle flotte, spesso descritta come “troppi pescatori a caccia di troppo pochi pesci” significa che i potenziali benefici sono dissipati attraverso gli eccessivi sforzi per pescare.”[5]
Il guaio è che, per anni, davanti alla produttività che colava a picco, si è tentato di rimanere a galla comprimendo il costo del lavoro, facondo lobbying per ottenere sussidi e investendo ancor di più in tecnologia (i famosi cestini sempre più grandi). Un buco nell’acqua. Peggio, un maelstrom, un gorgo che inghiotte risorse ecologiche e economiche. Lo dicono i numeri. Secondo la Fao, la proporzione degli stock di pesce sfruttati al massimo, sovrasfruttati, impoveriti o in ristabilimento post-impoverimento è salita dal 50 per cento del totale a metà anni Settanta, al 75% del 2005. Per contro, quella degli stock sottosfruttati o moderatamente sfruttati è scesa dal 40 per cento del 1974 al 25 per cento del 2005.[6] E se le catture sono cresciute in modo prodigioso dal 1950 (circa 19 milioni di tonnellate di pescato) al 1990 (attorno ad 80 milioni di tonnellate). Da quella data in poi, nonostante tutti gli sforzi, si sono stabilizzate, con alti e bassi, fra gli 80 e gli 85 milioni di tonnellate. C’è anzi chi, come l’accademico Daniel Pauly, ritiene che siano addirittura diminuite[7].
Negli stessi anni, il numero di pescatori è aumentato di continuo, soprattutto in Asia e Africa (mentre nei paesi sviluppati la tendenza è opposta). Tanto che si è passati da circa 13 milioni di pescatori nel 1970 a 30 milioni nel 2000. Ma, come i cestini dei nostri raccoglitori di funghi, anche le reti di ciascun pescatore si sono via via svuotate: da oltre 5 tonnellate di pescato pro capite l’anno nel 1970, si è scesi a 3,1 nel 2000: un calo del 42 per cento.[8] E, visto che assieme ai pescatori, sono raddoppiate le flotte da pesca (da circa 600 mila vascelli del 1970 a quasi un milione e 200 mila nel 2005) e si è moltiplicata, grazie al progresso tecnologico, la capacità potenziale di cattura dei pescherecci, la produttività (intesa come rapporto tra tutti i pesci che si potrebbero potenzialmente pescare, dati flotta e pescatori a disposizione, e quanto viene effettivamente pescato) si è inabissata: oggi è sei volte più bassa che nel 1970.[9]
Difficile stupirsi, allora, quando il rapporto ricorda che, “per diverse comunità, la pesca è una crescente trappola di povertà e, in assenza di alternative, una sopravvivenza da ultima spiaggia[10]”.
E che fareste voi, con l’acqua alla gola, se non chiedere un salvagente? Alcuni pescatori, in sostanza quelli dei paesi sviluppati, l’anno trovato: il rapporto calcola che, nell’anno 2000, alla pesca siano stati concessi sussidi pubblici per 10 miliardi di dollari (7 milioni e 750 mila dei quali nei paesi sviluppati), soprattutto sotto forma di sconti per il carburante e incentivi vari per il rinnovo della flotta. Peccato che anche la via che porta all’abisso sia lastricata di buone intenzioni. “I sussidi per il carburante – scrivono gli autori del rapporto – sono un esempio di trasferimento che riduce i costi della pesca. I costi ridotti fanno recuperare profitto e creano perversi incentivi a continuare a pescare di fronte a catture in calo. Il risultato è eccesso di pesca (overfishing), sovra capitalizzazione delle flotte, ridotta efficienza economica e dissipazione di risorse”[11].
I pescatori europei, in qualche caso, anche ottenuto (o preteso?) di andar, per così dire, a cercar funghi nei boschi degli altri (in Senegal,ad esempio). Una specie di colonialismo di ritorno che promette di fare non meno danni di quello che l’ha preceduto[12].
I tesori sommersi, di solito, di positivo hanno però una cosa: qualche volta possono essere recuperati. E, per la Banca Mondiale, lo si potrebbe fare anche in questo caso. “Gli odierni livelli di pescato – dice ad esempio il rapporto – potrebbero essere ottenuti con all’incirca la metà dello sforzo attuale per la pesca”[13]. E, ancora, “la pesca sostenibile può creare un surplus economico e essere un motore di crescita economica.”[14]
Ma la medicina è dura da mandar giù. I nostri cercatori di funghi, del resto, l’hanno già assaggiata: raccolta a giorni alterni, limite massimo alle quantità pro-capite, obbligo di utilizzare tecniche “sostenibili” (cestini o borse traforate per disperdere le spore, pulizia della base dei funghi, eccetera), multe per chi fa il furbo. Qualcosa di simile dovrà accadere anche per i pescatori: meno sussidi, sistemi di pesca più sostenibili e più vincoli nell’accesso a mari ed oceani (con qualcuno, ovvio, che li faccia rispettare e punisca i trasgressori[15]). Una cura da cavallo. Con l’aggravante che qui non parliamo di un hobby, ma di ciò di cui campano milioni di persone. Per questo, il rapporto della Banca Mondiale suggerisce ai governi di farsi carico degli effetti collaterali: “Le riforme implicano una riduzione negli sforzi e nelle capacità di pesca e andranno incontro a costi sociali ed economici, per cui le riforme di successo dovranno procurare reti di sicurezza sociale e opportunità economiche alternative per i pescatori che saranno colpiti.”[16]
Le pillole amare non piacciono a nessuno. Né a chi va per boschi, né a chi va per mare. Ma bisogna guardare in faccia l’alternativa: “Gli uomini potevano permettersi di trattare il mare come una risorsa infinita quando erano relativamente pochi, capaci solo di un piuttosto inefficiente sfruttamento delle grandi profondità e senza ancora l’appetito per i combustibili fossili. In un mondo di 6,7 miliardi di anime, destinate a diventare 9 miliardi nel 2050, non possono più farlo. La possibilità di una catastrofe generalizzata è semplicemente troppo grande.”[17]
Il primo passo per uscire dal vicolo cieco, dovrebbe essere dar retta agli scienziati, quando si fissano i tetti di pesca, anziché aumentarli fino al 50% rispetto alle loro raccomandazioni, come si fa d’abitudine nell’Unione Europea.[18] Ma, come riconosce John Grimond, autore del rapporto dell’Economist, “gli scienziati, comunque, non hanno il monopolio della saggezza riguardo al mare, e nessun sistema funzionerà se escluderà le conoscenze dei pescatori, ignorerà il loro benessere economico o dipenderà dalla paura delle sanzioni per ottenere la loro cooperazione. Il segreto è persuaderli che il loro interesse di lungo periodo, che coincide con quello dei pesci, scavalca quello di corto periodo, che è di estrarre anche l’ultimo pesciolino più in fretta possibile[19]”.
Anche nei boschi, chi ha la vista corta rischia di raccogliere funghi velenosi.








[1] “The Sunken Billions. The economic justification for fisheries reform”, advanced edition, ottobre 2008, scaricabile da http://siteresources.worldbank.org/EXTARD/Resources/336681-1215724937571/SunkenBillionsAdvanceWebEd.pdf
[2] Una sintesi di questi danni e della concomitante minaccia posta agli ecosistemi marini dai cambiamenti climatici si può trovare in “Troubled waters. A special report on the sea”, in The Economist, 3 gennaio 2009.
[3] Secondo Daniel Pauly, direttore del Fisheries Centre dell’Università British Columbia di Vancouver, nel 2004 le catture illegali, non registrate o non regolamentate avrebbero toccato i 30 milioni di tonnellate (circa un quarto del totale). Vedi grafico in “Troubled Waters”, The Economist, cit., p. 13. Vedi anche “Ora impariamo anche a pescare di meno”, intervista a Daniel Pauly in “Tuttoscienze”, allegato alla Stampa del 24 settembre 2008, p. II.
[4] The Sunken Billions, cit., p. IX. Questa e le successive traduzioni sono nostre.
[5] Ivi, p. XIV.
[6] The Sunken Billions, cit.,p. 2.
[7] Intervista e grafico citati, vedi nota 3.
[8] The Sunken Billions, cit., pp. 13-14.
[9] Ivi, p.16.
[10] Ivi, p. 11.
[11] Ivi, p. 18, box 2.
[12] Su questo tema, si veda il rapporto di Action Aid “SelFISH Europe”, consultabile all’indirizzo http://www.illegal-fishing.info/uploads/ActionAidSelFISHEurope.pdf e l’articolo di George Monbiot “Manufactured famine”, in The Guardian, 26 agosto 2008, scaricabile da http://www.monbiot.com/archives/2008/08/26/manufactured-famine/ . Sulla pessima politica Ue (e italiana) in tema di pesca, si veda anche “Troubled waters”, in The Economist, cit., pp.16-17, dove si ricorda che l’88% degli stock ittici europei è “overfished”.

[13] The Sunken Billions, cit., p. XIV.
[14] Ivi, p. IX.
[15] Su difficoltà e fallimenti nelle politiche di regolamentazione della pesca, vedi “Grabbing it all. In most places fisheries policies have failed completely”, in “Troubled waters”, The Economist, cit., pp. 13-15. Per un esempio virtuoso di quelle politiche, quello islandese, vedi ivi, “Un icelandic success”, pp. 15-17.
[16] The Sunken Billions, cit., p.X.
[17] “Troubled waters”, cit., p. 4.
[18] Ivi, p. 16.
[19] Ivi, p.17.