martedì 27 aprile 2010

Carta Doc

Legno, carta, fuoco, motosega
Su corriere.it di oggi ci sono dati preoccupanti sulla distruzione delle foreste mondiali. Secondo uno studio basato su rilevazioni satellitari e pubblicato dalla rivista pubblicato dalla rivista Pnas (Proceedings of the National Accademy of Sciences of the United States), tra il 2000 e il 2005 sono spariti 1.011.000 chilometri quadrati di foreste, pari al 3,1% del patrimonio forestale mondiale. Una superficie di oltre tre volte più grande dell'Italia.
Meglio dunque pensarci due volte, prima di comprare mobili, carta igienica o fazzoletti di carta. E visto che non sempre (ma spesso sì), si può dare un taglio ai nostri consumi, proviamo almeno a comprare legno e carta "buoni, puliti e giusti". Un modo per farlo è cercare il marchio Fsc (Forest Stewardship Council), come spiega il segretario Mauro Masiero in questa intervista che mi ha concesso a Mantova a ottobre 2009, pubblicata sul numero 45 di Slowfood.

Carta Doc
Si dice che un albero che cade faccia più rumore di una
foresta che cresce. Ma il fatto è che cadono molti più
alberi di quanto non crescano foreste. Che, sul nostro
sempre meno verde pianeta, si estendono ancora per circa 3,9
miliardi di ettari. Ma, ogni anno, gli alberi che cadono (perché
qualcuno li taglia) se ne portano via una fetta che fa impressione:
16,1 milioni di ettari. Se si mettono nel conto le foreste che
crescono, le nuove piantagioni di alberi e l’espansione naturale
dei boschi, la perdita è drammatica: 9,4 milioni di ettari. Come
l’intero Portogallo. Giusto per dare un’idea, ogni due secondi e
mezzo sparisce un bosco grande quanto un campo da calcio.
C’è chi mette mano all’ascia per strappare alla foresta un pezzo di
terra da coltivare. Chi accende la motosega per vendere legname.
Chi abbatte o brucia per fare spazio alle mandrie o alla soia o alle
palme da olio, magari per farci biocarburanti. Insomma, i motivi
per darci un taglio sembrano non mancare mai. Eppure, di motivi
per salvarle, le foreste, ce ne sarebbero di assai migliori.
Nel 2007, come riporta Lester Brown1 dell’Earth Policy Institute,
la distruzione delle foreste tropicali avrebbe rilasciato in atmosfera
2,2 miliardi di tonnellate di carbonio. Senza contare le inondazioni,
le frane e le erosioni dei suoli dovute al diboscamento.

I pro…
Rimediare si può. Per esempio pagando la gente non per tagliare le
foreste, ma per proteggerle, vedi i cosiddetti progetti Redd (reducing
emissions from deforestation and degradation2). Oppure piantando
nuovi alberi, come propone, tra le tante, la Billion Tree Campaign
lanciata dal premio Nobel per la pace Wangaari Maathai. Ma c’è una
terza via, che sulle prime può sembrare più bizzarra: salvare le foreste
pur continuando a tagliare. Come sia possibile, l’abbiamo chiesto a
Mauro Masiero, segretario generale in Italia del Forest Stewardship
Council (Fsc), organizzazione non governativa e senza scopo di lucro
fondata nel 1993 per promuovere in tutto il mondo la gestione responsabile delle foreste. «La nostra sfi da è far capire due cose: primo, tagliare alberi non è necessariamente un crimine, dipende da come si fa. Secondo, non tutti i prodotti in legno o in carta sono uguali. Alcuni
provengono da foreste gestite bene, altri no».
Come distinguerli? Dal marchio. Come quello dell’Fsc, appunto. La questione, però,
è la stessa di tutti i marchi: c’è da fidarsi? «Voglio intanto spiegare che cos’è una foresta certificata» dice Masiero. «È una foresta gestita secondo i 10 princìpi e i 57 criteri fissati dall’Fsc e dai suoi ormai quasi 800 membri internazionali, fra i quali ci sono associazioni ambientaliste
come Greenpeace, Legambiente o il Wwf, industrie del legno, aziende della grande distribuzione (Ikea, Castorama), ma anche Ong (come Amnesty International) e rappresentanti delle comunità indigene e di chi lavora nelle foreste. I controlli sono affi dati a 22 enti certificatori, a loro volta controllati da un ente di accreditamento, l’Asi».
Il primo dei 10 comandamenti Fsc impone il rispetto delle leggi. Sembra banale, ma non lo è: l’Oecd (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) calcola che il 10% del commercio internazionale del legname, per un giro d’affari di 15 miliardi di dollari
l’anno, sia frutto di tagli illegali, con punte dell’80% in Amazzonia, del 70% in Indonesia e del 50% in Camerun3. E, secondo il Wwf, di provenienza illegale o quantomeno sospetta sarebbe tra il 16 e il 19% delle importazioni di legno nell’Ue4.
«Anche il rispetto dei diritti di proprietà, di quelli delle comunità indigene e di quelli dei lavoratori, previsti da altri tre criteri Fsc, in molte aree del mondo sono tutt’altro che scontati» spiega ancora Masiero. E c’è poi, ovviamente, l’obbligo che i tagli consentano comunque di mantenere le funzioni ecologiche e l’integrità delle foreste. «In altre parole, si è certi che la foresta o la piantagione d’origine del materiale siano gestite secondo criteri che tutelino
l’ambiente naturale, siano utili per lavoratori e popolazioni locali e validi dal punto di vista economico».

...e i contro
Benché più o meno tutti concordino sul fatto che quello del Fsc
sia il sistema di certifi cazione più rigoroso in circolazione5, non
mancano le critiche. Di recente, la rivista inglese The Ecologist
ha messo in fi la pro e contro6. Tra i punti più contestati, il fatto
che vengano certifi cate non solo foreste, ma anche piantagioni,
cioè boschi seminati dall’uomo. «È chiaro che una distesa
di pioppi non ha, in termini di importanza ecologica e di tutela
della biodiversità, lo stesso valore di una foresta vergine» ribatte
Masiero, «e non a caso Fsc ha in corso una revisione dei criteri
relativi alle piantagioni. Ma è un fatto, sottolineato anche dalla
Fao, che le piantagioni nel mondo siano in forte crescita, offrano
lavoro e siano anche una barriera all’erosione dei suoli e ai dissesti
idrogeologici. Perché, allora, non rendere “certifi cabile” anche
quel legno? Quanto ai princìpi e ai sistemi di controllo, sappiamo
che si può sempre migliorare e cerchiamo di farlo. In ogni caso,
su politiche, standard e gestione dei programmi di certifi cazione,
Fsc coinvolge in uguale misura tutti i gruppi d’interesse del settore
forestale (sociale, economico e ambientale) a livello di partecipazione
(voce) e anche decisione (voto). Ciò rende il sistema Fsc
unico nel mondo delle certifi cazioni forestali».
Ma, di sicuro, il lavoro da fare non manca. A ottobre 2009, gli ettari
di foresta certifi cati Fsc a livello mondiale hanno superato i 118
milioni di ettari. Ma di foreste, nel mondo, ce ne sono, come detto,
4 miliardi di ettari. Oltretutto, di quei 118 milioni, più di 53 sono
in Europa (45 000 ettari in Italia, dove le più estese aree certifi cate
sono i boschi della Magnifi ca comunità di Fiemme e quelli del
parco regionale del Matese) e altri 40 tra Usa e Canada. Nelle zone
delle grandi foreste vergini, solo briciole: 5 milioni e mezzo di ettari
in Brasile, meno di 3 in tutta l’Asia e 7 nell’intera Africa. «Certifi -
care pezzi della foresta amazzonica, del Borneo o del bacino del
Congo, per citare le più a rischio» spiega Masiero «non è solo più
complesso di per sé, visto il gran numero di differenti interessi in
gioco, ma è reso più diffi cile dalla corruzione dei funzionari e dalle
carenze di governance locale. Esempi positivi, comunque, non
mancano. E anche la Ue sta cercando di incentivarli, per esempio
col programma Flegt, contro le esportazioni di legname illegale».

Da consumatori a co-produttori
Certo è che il marchio funziona se c’è qualcuno che lo riconosce ed
è disposto magari a pagare qualcosa in più per averlo, ricompensando
così le aziende “virtuose”. Anche in questo caso, insomma, i consumatori
dovrebbero essere un po’ “co-produttori”. Da questo punto di
vista, i segnali positivi non mancano. «Nel 2008, le vendite mondiali
di prodotti certifi cati Fsc hanno superato i 20 miliardi di dollari» spiega
Masiero, «mentre nel 2005 erano di soli 5 miliardi di dollari».
L’Italia, però, non è all’avanguardia. Siamo ben lontani dal 63% di olandesi
che riconosce il marchio Fsc, o dal 57% di svizzeri. Ma, anche
da noi, si fanno passi avanti. «Nel 2009 abbiamo registrato il record di
richieste di certifi cazione» dice Masiero. Segno che le aziende credono
nel marchio. Ma i consumatori saranno disposti a spendere di più per
legno e carta certifi cati? E quanto di più? «Non sempre c’è una sensibile
differenza di prezzo fra prodotti Fsc e non» spiega Masiero. «Quelli a
base di carta possono essere in vendita allo stesso prezzo, come ha fatto
per esempio Coop per la carta igienica o i fazzolettini e come fanno le
ferrovie tedesche per i biglietti del treno, stampabili anche su carta Fsc.
E anche le amministrazioni pubbliche si stanno muovendo, dopo che,
ad aprile 2008, è stato sbloccato il piano nazionale per gli acquisti verdi
pubblici. Molti bandi per la fornitura di arredi o carta prevedono ormai
la certifi cazione. L’unico problema è che tutto è lasciato alla buona volontà
delle singole amministrazioni, senza un piano organico».
Ma non avranno ragione quelli che dicono che, in fondo, marchi
come quello di Fsc servono solo a placare i sensi di colpa del consumatore,
dandogli una scusa per continuare a comprare, mentre la
vera scommessa sarebbe diminuire i consumi? «Proprio l’altro giorno
sono andato a sentire Maurizio Pallante, che parlava di società
della decrescita. Per certi versi concordo. Ma mettere le foreste sotto
vetro non si può. Un esempio? L’Italia è il primo partner del Camerun
per il settore legno. Il secondo è la Cina. Vale la pena smettere
di comprare legno certifi cato dal Camerun e lasciare campo libero
ai cinesi che, mi risulta, non mettono di solito le preoccupazioni
sociali e ambientali in cima alle loro priorità?». .

Note
1. Lester R. Brown, Piano B 3.0. Mobilitarsi per salvare la civiltà, Edizioni Ambiente,
2008, p. 183.
2. Per una panoramica sui progetti Redd vedi l’articolo “Last gasp for the forest”, in The
Economist, 26 settembre 2009.
3. Oecd, The economics of illegal logging and associated trade, 2007, scaricabile
all’indirizzo
http://www.oecd.org/dataoecd/15/43/39348796.pdf.
4. Wwf, Illegal wood for the European market, rapporto del luglio 2008 scaricabile all’indirizzo
http://assets.wwf.org.uk/downloads/european_market_wood_1.pdf.
5.Il Central Point of Expertise on Timber (Cpet) che fa capo al Department for Environment,
Food and Rural Affairs (Defra) del Governo britannico ha pubblicato a fi ne 2008 il
nuovo rapporto comparativo di cinque schemi di certifi cazione forestale: Csa, Fsc, Mtcc,
Pefc e Sfi . Fsc è risultato il migliore. Vedi http://www.proforest.net/cpet/documents.
6. Matilda Lee, “Can we trust the Fsc?”, in The Ecologist, 23 settembre 2009.

lunedì 5 aprile 2010


Il prezzo e il costo
di quel che compriamo

Non è più stagione di arance. Forse, però, di alcune arance faremmo bene a non dimenticarci: quelle di Rosarno, ad esempio. Ve le ricordate ancora, le immagini della rivolta? I giorni di guerriglia urbana fra extracomunitari e abitanti del paese. Gli spari, le sassaiole, le auto incendiate. E, poi, altre immagini: quelle dei posti (tuguri? rifugi? catapecchie? Fate voi) dove quegli immigrati, i raccoglitori di arance, vivevano.
No, non voglio star qui a distribuire torti e ragioni per quel che è successo in quell’angolo di Calabria. E’ che, non so a voi, ma a me quelle immagini, ogni volta che ho pelato un’arancia, hanno fatto venire in mente una domanda: il prezzo di quei tuguri, di quei rifugi, di quelle catapecchie è forse compreso nel prezzo al chilo delle arance che ho comprato? E, se non vi è compreso, non vorrà dire che le arance le pago poco (o comunque meno) proprio perché il costo aggiuntivo lo paga chi vive là dentro e sgobba per pochi euro l’ora?
Le arance, ovvio, sono solo un esempio. Se preferite, potete pensare ai vestiti che comprate per pochi euro sulle bancarelle del mercato. O ai gamberetti che, ormai, costano quasi meno dell’insalata. Non vi viene mai in mente di chiedervi se il prezzo e il costo di quel che compriamo siano la stessa cosa? O se ci siano invece costi che sullo scontrino non ci sono, perché quei costi non li paga chi compra (almeno non subito), ma qualcun altro?
Gli economisti la chiamano “esternalizzazione”: più riesci a “esternalizzare” i costi (cioè a farli pagare a qualcun altro, che non sia chi compra) e più puoi tenere bassi i prezzi, per vendere di più. Ma dove finiscono i costi “esternalizzati”? Svaniscono, forse? No davvero. Se faccio lavorare qualcuno in nero, senza assicurazione, di sicuro risparmio. E, se gli capita qualcosa, peggio per lui: pagherà di tasca sua il costo che io ho esternalizzato.
Più spesso ancora, capita che i costi esternalizzati li paghi l’ambiente. Entrate in un supermercato e comprate quattro mele. Stanno in una vaschetta di polistirolo, avvolte nel cellophane. Comodo, vero? Però quella vaschetta e quel cellophane, pochi giorni dopo, finiranno in discarica. Domanda: il costo dello smaltimento era forse compreso nel prezzo? No, però vi toccherà pagarlo lo stesso, nella bolletta dei rifiuti. Come in un reality: “sei stato esternalizzato”.
Silvia Pérez-Vitoria, autrice di “Il ritorno dei contadini” (Jaca Book, Premio Nonino 2009), al Festivaletteratura di Mantova ha spiegato: “Si dice che il cibo industriale costi poco: ma al prezzo che paghiamo dovremmo aggiungere il costo dei sussidi all’agricoltura, dei danni alla salute, tipo obesità, e di quelli all’ambiente”. Si potrebbero aggiungere, per dire, i costi delle sofferenze degli animali d’allevamento (leggete “Se niente importa” di Jonathan Safran Foer, se volete farvi un’idea). Ma vale lo stesso per un sacco di prodotti industriali, magari sfornati da impianti opportunamente “delocalizzati” in posti dove si può inquinare di più e retribuire di meno.
Si può fare qualcosa, per ridurre la forbice fra prezzo e costo? Certo. Obbligare, come si è fatto, i produttori d’auto a rispettare le normative sulle emissioni, vuol dire “internalizzare” i costi dell’inquinamento che prima venivano scaricati sull’ambiente (cioè sui polmoni di tutti). Lo stesso vale per le classi di consumo energetico degli elettrodomestici o per la certificazione energetica degli edifici. Così, direte voi, va però a finire che chi compra deve pagare di più. Forse. Ma è sempre meglio che pagare un prezzo senza saperlo. O farlo pagare a qualcun altro. Non siete convinti? Abbiamo iniziato con le arance, finiamo con i meloni: un paio d’anni fa, a Viadana (Mantova), non in Calabria o in Cina, Vijay Kumar, un immigrato indiano, è morto sotto il sole di luglio perché s’è sentito male mentre raccoglieva meloni e, visto che era in nero, il suo datore di lavoro l’ha fatto spostare lontano dai suoi campi invece di chiamare subito i soccorsi. Davvero li avreste comprati, quei meloni lì, se vi avessero fatto lo sconto?