martedì 22 febbraio 2011

Lo sciacquone dello scandalo


C’era una volta il presidente di uno Stato lontano, che raccontò d’esser solito far pipì sotto la doccia. C’era un’altra volta, in una grandissima città, un sindaco che rivelò che lui la pipì la faceva nel water, ma non tirava l’acqua. C’era una terza volta, il capo di una di quelle associazioni che hanno a cuore gli animali, che disse che lui la doccia la faceva non più d’una volta alla settimana.
“Ma cos’è, la favola dei Tre Sporcaccioni?” – obiettò con disgusto Tizio, sentendo questa storia. “E vi sembrano favole da raccontare ai bambini?” – si scandalizzò Caio. “E, se davvero è una favola, quale mai sarebbe la morale?” – chiese schifato Sempronio. “Forse che anche i ricchi puzzano” – disse Tizio (che a volte confondeva le favole con le telenovelas). “O magari che il potere dà alla testa e anche un po’ più giù” – buttò lì Caio, con un risolino. “Beh, meno male che quei tre li hanno almeno costretti a confessare le loro porcherie” – concluse Sempronio.
“Non è che li abbiano costretti. L’hanno detto senza vergognarsi, anzi”. A parlare era stato un bimbetto, nero di pelle e anche un po’ d’umore. “Sporcaccioni e pure spudorati!” – s’inalberò Tizio. “Ma hanno detto di farlo per risparmiare l’acqua. E anche la carte igienica” – replicò il bambino. “Sporcaccioni, spudorati e pure pidocchiosi” – commentò Caio. “Proprio non volete capire” – disse il bambino, il cui umore cominciava a diventare anche più nero della pelle. Era un bambino magro e malvestito, ma doveva aver studiato, perché cominciò a snocciolare una serie di numeri e dati (e questo, ammettiamolo, è un po’ strano: nel Paese da cui veniva lui, i bambini che vanno a scuola esistono, purtroppo, quasi solo nelle favole). “Non lo sapete che tutta la carta igienica che, ogni anno, finisce nei water o in discarica, è pari a più di 25 mila alberi tagliati al giorno? O che ogni statunitense usa ogni giorno, in media, 57 fogli di carta igienica, che moltiplicati per 300 milioni di americani fanno 3 milioni e 200 mila tonnellate di carta l’anno? E che, se faceste pipì nella doccia, evitando così uno scarico dello sciacquone, risparmiereste 4380 litri d’acqua l’anno?”
“Suvvia, bel bambino, di acqua al mondo ce n’è talmente tanta…” – lo interruppe Caio, battendogli la mano sulla testa per compatirlo. “Sì – obiettò il bimbo - ma se ci stesse tutta in una tanica da 5 litri, quella potabile, cioè non salata, sarebbe un bicchiere scarso e di quel bicchiere ne potremmo bere solo una tazzina da caffè, perché l’altra sta nei ghiacciai perenni o piove su mari e oceani. E, allora, non vi sembra uno scandalo usare l’acqua potabile anche per sciacquare il water? Senza avere, magari, nemmeno il getto regolabile o a due intensità? E non potreste, almeno, usare carta igienica riciclata, invece di quella vergine a tre o quattro veli?”
Tizio, Caio e Sempronio pensarono invece che il vero scandalo fosse lasciar a zonzo un bimbetto tanto impertinente e lo piantarono lì. Lui capì che l’acqua potabile avrebbe continuato a sognarsela di notte e a vedere le sue foreste tagliate di giorno. Ma qualcun altro, a furia di sentir parlare di Tizio, Caio e Sempronio, pensò che, forse, la morale di questa favola l’avevano già scritta i latini: Oportet ut scandala eveniant, è opportuno che gli scandali avvengano. “Purché – aggiunse – ci si scandalizzi per le cose giuste”.

P.S.: i Tre Sporcaccioni di questa favola esistono davvero. Il primo si chiama Hugo Chávez e governa (nel bene e nel male) il Venezuela. Il secondo è Ken Livingstone, ed è stato per 8 anni sindaco di Londra. Il terzo è Fulco Pratesi, leader storico del Wwf Italia. Anche i numeri di questa favola sono veri, almeno stando al numero di maggio/giugno 2010 di Worldwatch, la rivista del WorldWatch Institute, all’associazione ambientalista brasiliana Sos Mata Atlantica (che ha dato vita alla campagna Faça Xixi no Banho, “fai pipì nella doccia”) e ai dati sull’acqua potabile dello speciale dell’Economist del 22/28 maggio 2010. Se anche la morale di questa favola è vera, quello decidetelo voi.

La favola delle api


C’era una volta un filosofo e poeta satirico, olandese di nascita e britannico d’adozione, che di nome faceva Bernard de Mandeville. Se qualcuno ancora si ricorda di lui, è in ragione del titolo, e ancor più del sottotitolo, di un poemetto che scrisse più o meno tre secoli fa, nei primi anni del Settecento: La favola delle api, ovvero vizi privati e pubbliche virtù. Raccontavano, quei versi, di un alveare prosperoso sì, ma così brulicante d’ineguaglianze, sopraffazioni, sotterfugi e cupidigie (di privati vizi, insomma), da suscitare, in alcune delle api, un pungente desiderio di giustizia e probità. Giove in persona, il deus ex machina di quella favola, si piccò d’esaudirlo, quel desiderio. Ma più per dispetto che per magnanimità. Da quando, infatti, equità e rettitudine vi trovarono albergo, l’alveare vide piano piano volar via tutta la sua prosperità.
La morale della favola era che la nascente società dei capitali e dei capitani d’industria (ché quello rappresentava l’alveare) poteva fondarsi soltanto sul lusso, lo sperpero e la brama di ricchezza. Per dirla con le parole di Mandeville, la “facile contentatura” è “la peste dell’industria”, mentre “il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtù da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa”.
Tra i contemporanei del nostro Bernard, c’era un altro filosofo di gran vaglia: Giambattista Vico. E, forse, a Mandeville sarebbe tornata alla mente la vichiana teoria dei corsi e ricorsi storici se avesse saputo che, trecent’anni dopo la sua, un gruppo di rampanti capitani d’industria si sarebbe fatta raccontare un’altra favola delle api per imparare qualcosa di una diversa rivoluzione industriale. Quella che chiamano l’economia verde o, per dirla con i conterranei acquisiti del Nostro, la green economy.
E’ successo in un pomeriggio d’ottobre, nella sede di Assindustria a Mantova, per l’annuale assemblea dei giovani industriali. In cattedra, tra un produttore di pannelli truciolari fatti con legno riciclato e un manager che recupera plastica per le sue imbottigliatrici, anche Zerihun Dessalegn, della Fondazione Slow Food per la biodiversità, responsabile dei presìdi della sua terra: l’Etiopia. Anche la favola di Zerihun parla di due alveari. Uno è quello tradizionale per il corno d’Africa (dove il miele, ha spiegato Zerihun, lo si fa da almeno tremila anni, lo si mangia, lo si usa come cicatrizzatore e come portafortuna e lo si trinca pure, sotto forma di una bevanda alcolica detta tej). Un grosso cilindro, che spesso viene appeso appena fuori dalle capanne (i tukul) e che ha una lunga storia, ma parecchi difetti: è impossibile spostarlo per seguire le diverse fioriture, produce poco miele, spesso di qualità non eccelsa, e provoca problemi di convivenza fra gli inquilini dell’alveare e quelli dei tukul. Davanti a quella platea cui non era troppo abituato, Zerihun ha spiegato che anche laggiù, in Etiopia, di colpo è arrivato un nuovo alveare. Ma a portarcelo non è stato Giove, bensì un signore seduto in mezzo a loro che, fra tanti giovani, spiccava per i suoi capelli bianchi: Celso Braglia, volontario della onlus “Modena per gli altri” e apicoltore pure lui. Cinque anni fa, visitando l’Etiopia, Celso osservò quegli alveari e i loro difetti. E capì che poteva dare una mano. Certo non dev’essere stato facile farsi capire in amarico. La sua fortuna fu d’incontrare, nella missione di Shallalà, il signor Sumoro (di cui Celso tiene, orgoglioso, una foto nel taschino). A lui consegnò la prima arnia “moderna”, come quelle in uso da noi, per dimostrare che con quella si potevano produrre 35 chili di miele l’anno, anziché i 12 di prima. E siccome anche in amarico il passaparola funziona alla grande, in tanti hanno voluto fare come Sumoro. Ne è nato un piccolo esperimento di microcredito: i kit per costruire le arnie li fa un falegname di Addis Abeba. Chi lo vuole può scegliere se ripagarlo con due chili di cera d’api, o quattro di miele o pagando 100 birr (meno di 8 euro) in tre o quattro rate. Poi nel progetto sono entrate altre associazioni, è arrivata Slow Food, ci sono state lezioni di apicoltura di italiani in Etiopia e di etiopi in Italia, i mieli dei due presidi Slow Food, quello bianco di Wukro e quello del vulcano di Wenchi, sono approdati a Terra Madre e adesso anche una banca emiliana sembra voler dar sostegno al progetto di microcredito. Insomma, per farla breve, Zerihun ha spiegato che le associazioni di apicoltori sono diventate sei, per un totale di 110 membri. Quelle di Wenchi e Wukro sono già cooperative e altre tre seguiranno presto.
La morale della sua favola, Zerihun l’ha riassunta così: “Vogliamo uscire dalla povertà, ma senza distruggere la natura”.
Però, direte voi, questa favola delle api sembra un po’ il contrario di quella di Mandeville. Qui è il buon cuore a trionfare, non i cattivi pensieri. E, oltretutto, l’ha raccontata un africano, che i contemporanei del buon Bernard avrebbero considerato, ai tempi, un selvaggio da civilizzare, mica un saggio da cui prendere lezioni. Sarà che, checché ne pensi Giambattista Vico, non sempre la storia si ripete alla stessa maniera. Ma ai giovani capitani d’industria che hanno applaudito convinti Zerihun, la cosa non sembrava dispiacere. E a noi men che meno.

Quel che non ci serve per essere felici


Abbiamo da poco finito di festeggiare San Silvestro e il nuovo anno. Ma si potrebbe dire che, per il nostro pianeta, l’anno sia finito ben prima del 31 dicembre. Per l’esattezza, il 21 di agosto. Quel giorno, secondo i calcoli del Global Footprint Network, l’umanità ha esaurito, nel 2010, la biocapacità annuale della Terra, ovvero la capacità del pianeta di rigenerare le risorse che noi consumiamo. Come venga fatto il calcolo, è un po’ complicato da spiegare (i più curiosi possono scoprirlo sul sito http://www.footprintnetwork.org/). Ma cosa comporti è presto detto: se, ad esempio, emettiamo in un anno più anidride carbonica (Co2) di quella che il pianeta è in grado di assorbire, la parte in eccesso resterà nell’atmosfera e, visto che la Co2 è un cosiddetto gas-serra, farà aumentare la temperatura del pianeta. Se tagliamo più alberi di quanti possano ricrescere, ci ritroveremo con meno foreste e se pompiamo troppa acqua, intaccando le falde profonde, finirà che ci ritroveremo a secco. Insomma, per farla breve, è come spendere ogni anno più soldi di quanti se ne incassano: prima o poi si fa bancarotta. E la bancarotta ecologica del pianeta non sarà una buona notizia per chi ci abita sopra.
Come si possa fare per evitarla, è facile da dire: basta spendere (consumare) meno di quello che si incassa (rigenera). E, allora, perché è così difficile da fare? Secondo il Worldwatch Institute, una delle più importanti organizzazioni ambientaliste mondiali, lo è perché, per farlo, dovremmo cambiare la nostra cultura: dal consumismo alla sostenibilità, come recita il sottotitolo dell’edizione 2010 del rapporto “State of the world” dello stesso istituto. Ma cos’è mai il consumismo? Secondo il Worldwatch Institute è “un modello culturale che conduce la gente a trovare significato, soddisfazione e accettazione primariamente attraverso il consumo di beni e servizi”. Quante volte ci siamo detti, o ci hanno detto, che non c’è niente di meglio di un po’ di shopping per tirarci su quando abbiamo il morale sotto i tacchi? Quanti soldi vengono spesi, ogni anno, per spot pubblicitari che ci devono convincere di non poter essere bravi mariti/brave mogli/bimbi felici/gente alla moda/eleganti/sensuali/moderni e, in ultima analisi, felici se non compriamo la tal auto/profumo/giocattolo/vestito/computer e via dicendo? (Qui la risposta la dà lo stesso Worldwatch Institute: per marketing e pubblicità, nel solo 2008, sono stati spesi 643 miliardi di dollari).
Un paio di anni fa era venuto a Mantova, ospite del Festivaletteratura, frei Betto, teologo della liberazione brasiliano e ministro nel primo governo Lula. Aveva raccontato che, durante lo scalo aereo a Parigi, si era avventurato in uno dei tanti meganegozi dell’aeroporto. A una commessa che gli si era avvicinata per chiedere se avesse bisogno di consigli, lui aveva risposto: “No, grazie, stavo solo facendo una passeggiata filosofica: guardavo quante cose ci sono al mondo che non mi servono per essere felice”.
Come buon proposito di inizio anno, forse potremmo ricordarci di frei Betto e dare un’occhiata negli armadi, nei cassetti, in casa alla ricerca di tutte le cose che abbiamo comprato e non ci sono servite per essere più felici (alcune, magari, non le abbiamo mai nemmeno usate). Potremmo farne un elenco scritto, o almeno mentale. E ricordarcelo la prossima volta che ci viene la tentazione di fare un po’ di shopping anti-depressivo. Il pianeta, di sicuro, ringrazierebbe. E quello sì, che dovrebbe farci felici.

martedì 27 aprile 2010

Carta Doc

Legno, carta, fuoco, motosega
Su corriere.it di oggi ci sono dati preoccupanti sulla distruzione delle foreste mondiali. Secondo uno studio basato su rilevazioni satellitari e pubblicato dalla rivista pubblicato dalla rivista Pnas (Proceedings of the National Accademy of Sciences of the United States), tra il 2000 e il 2005 sono spariti 1.011.000 chilometri quadrati di foreste, pari al 3,1% del patrimonio forestale mondiale. Una superficie di oltre tre volte più grande dell'Italia.
Meglio dunque pensarci due volte, prima di comprare mobili, carta igienica o fazzoletti di carta. E visto che non sempre (ma spesso sì), si può dare un taglio ai nostri consumi, proviamo almeno a comprare legno e carta "buoni, puliti e giusti". Un modo per farlo è cercare il marchio Fsc (Forest Stewardship Council), come spiega il segretario Mauro Masiero in questa intervista che mi ha concesso a Mantova a ottobre 2009, pubblicata sul numero 45 di Slowfood.

Carta Doc
Si dice che un albero che cade faccia più rumore di una
foresta che cresce. Ma il fatto è che cadono molti più
alberi di quanto non crescano foreste. Che, sul nostro
sempre meno verde pianeta, si estendono ancora per circa 3,9
miliardi di ettari. Ma, ogni anno, gli alberi che cadono (perché
qualcuno li taglia) se ne portano via una fetta che fa impressione:
16,1 milioni di ettari. Se si mettono nel conto le foreste che
crescono, le nuove piantagioni di alberi e l’espansione naturale
dei boschi, la perdita è drammatica: 9,4 milioni di ettari. Come
l’intero Portogallo. Giusto per dare un’idea, ogni due secondi e
mezzo sparisce un bosco grande quanto un campo da calcio.
C’è chi mette mano all’ascia per strappare alla foresta un pezzo di
terra da coltivare. Chi accende la motosega per vendere legname.
Chi abbatte o brucia per fare spazio alle mandrie o alla soia o alle
palme da olio, magari per farci biocarburanti. Insomma, i motivi
per darci un taglio sembrano non mancare mai. Eppure, di motivi
per salvarle, le foreste, ce ne sarebbero di assai migliori.
Nel 2007, come riporta Lester Brown1 dell’Earth Policy Institute,
la distruzione delle foreste tropicali avrebbe rilasciato in atmosfera
2,2 miliardi di tonnellate di carbonio. Senza contare le inondazioni,
le frane e le erosioni dei suoli dovute al diboscamento.

I pro…
Rimediare si può. Per esempio pagando la gente non per tagliare le
foreste, ma per proteggerle, vedi i cosiddetti progetti Redd (reducing
emissions from deforestation and degradation2). Oppure piantando
nuovi alberi, come propone, tra le tante, la Billion Tree Campaign
lanciata dal premio Nobel per la pace Wangaari Maathai. Ma c’è una
terza via, che sulle prime può sembrare più bizzarra: salvare le foreste
pur continuando a tagliare. Come sia possibile, l’abbiamo chiesto a
Mauro Masiero, segretario generale in Italia del Forest Stewardship
Council (Fsc), organizzazione non governativa e senza scopo di lucro
fondata nel 1993 per promuovere in tutto il mondo la gestione responsabile delle foreste. «La nostra sfi da è far capire due cose: primo, tagliare alberi non è necessariamente un crimine, dipende da come si fa. Secondo, non tutti i prodotti in legno o in carta sono uguali. Alcuni
provengono da foreste gestite bene, altri no».
Come distinguerli? Dal marchio. Come quello dell’Fsc, appunto. La questione, però,
è la stessa di tutti i marchi: c’è da fidarsi? «Voglio intanto spiegare che cos’è una foresta certificata» dice Masiero. «È una foresta gestita secondo i 10 princìpi e i 57 criteri fissati dall’Fsc e dai suoi ormai quasi 800 membri internazionali, fra i quali ci sono associazioni ambientaliste
come Greenpeace, Legambiente o il Wwf, industrie del legno, aziende della grande distribuzione (Ikea, Castorama), ma anche Ong (come Amnesty International) e rappresentanti delle comunità indigene e di chi lavora nelle foreste. I controlli sono affi dati a 22 enti certificatori, a loro volta controllati da un ente di accreditamento, l’Asi».
Il primo dei 10 comandamenti Fsc impone il rispetto delle leggi. Sembra banale, ma non lo è: l’Oecd (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) calcola che il 10% del commercio internazionale del legname, per un giro d’affari di 15 miliardi di dollari
l’anno, sia frutto di tagli illegali, con punte dell’80% in Amazzonia, del 70% in Indonesia e del 50% in Camerun3. E, secondo il Wwf, di provenienza illegale o quantomeno sospetta sarebbe tra il 16 e il 19% delle importazioni di legno nell’Ue4.
«Anche il rispetto dei diritti di proprietà, di quelli delle comunità indigene e di quelli dei lavoratori, previsti da altri tre criteri Fsc, in molte aree del mondo sono tutt’altro che scontati» spiega ancora Masiero. E c’è poi, ovviamente, l’obbligo che i tagli consentano comunque di mantenere le funzioni ecologiche e l’integrità delle foreste. «In altre parole, si è certi che la foresta o la piantagione d’origine del materiale siano gestite secondo criteri che tutelino
l’ambiente naturale, siano utili per lavoratori e popolazioni locali e validi dal punto di vista economico».

...e i contro
Benché più o meno tutti concordino sul fatto che quello del Fsc
sia il sistema di certifi cazione più rigoroso in circolazione5, non
mancano le critiche. Di recente, la rivista inglese The Ecologist
ha messo in fi la pro e contro6. Tra i punti più contestati, il fatto
che vengano certifi cate non solo foreste, ma anche piantagioni,
cioè boschi seminati dall’uomo. «È chiaro che una distesa
di pioppi non ha, in termini di importanza ecologica e di tutela
della biodiversità, lo stesso valore di una foresta vergine» ribatte
Masiero, «e non a caso Fsc ha in corso una revisione dei criteri
relativi alle piantagioni. Ma è un fatto, sottolineato anche dalla
Fao, che le piantagioni nel mondo siano in forte crescita, offrano
lavoro e siano anche una barriera all’erosione dei suoli e ai dissesti
idrogeologici. Perché, allora, non rendere “certifi cabile” anche
quel legno? Quanto ai princìpi e ai sistemi di controllo, sappiamo
che si può sempre migliorare e cerchiamo di farlo. In ogni caso,
su politiche, standard e gestione dei programmi di certifi cazione,
Fsc coinvolge in uguale misura tutti i gruppi d’interesse del settore
forestale (sociale, economico e ambientale) a livello di partecipazione
(voce) e anche decisione (voto). Ciò rende il sistema Fsc
unico nel mondo delle certifi cazioni forestali».
Ma, di sicuro, il lavoro da fare non manca. A ottobre 2009, gli ettari
di foresta certifi cati Fsc a livello mondiale hanno superato i 118
milioni di ettari. Ma di foreste, nel mondo, ce ne sono, come detto,
4 miliardi di ettari. Oltretutto, di quei 118 milioni, più di 53 sono
in Europa (45 000 ettari in Italia, dove le più estese aree certifi cate
sono i boschi della Magnifi ca comunità di Fiemme e quelli del
parco regionale del Matese) e altri 40 tra Usa e Canada. Nelle zone
delle grandi foreste vergini, solo briciole: 5 milioni e mezzo di ettari
in Brasile, meno di 3 in tutta l’Asia e 7 nell’intera Africa. «Certifi -
care pezzi della foresta amazzonica, del Borneo o del bacino del
Congo, per citare le più a rischio» spiega Masiero «non è solo più
complesso di per sé, visto il gran numero di differenti interessi in
gioco, ma è reso più diffi cile dalla corruzione dei funzionari e dalle
carenze di governance locale. Esempi positivi, comunque, non
mancano. E anche la Ue sta cercando di incentivarli, per esempio
col programma Flegt, contro le esportazioni di legname illegale».

Da consumatori a co-produttori
Certo è che il marchio funziona se c’è qualcuno che lo riconosce ed
è disposto magari a pagare qualcosa in più per averlo, ricompensando
così le aziende “virtuose”. Anche in questo caso, insomma, i consumatori
dovrebbero essere un po’ “co-produttori”. Da questo punto di
vista, i segnali positivi non mancano. «Nel 2008, le vendite mondiali
di prodotti certifi cati Fsc hanno superato i 20 miliardi di dollari» spiega
Masiero, «mentre nel 2005 erano di soli 5 miliardi di dollari».
L’Italia, però, non è all’avanguardia. Siamo ben lontani dal 63% di olandesi
che riconosce il marchio Fsc, o dal 57% di svizzeri. Ma, anche
da noi, si fanno passi avanti. «Nel 2009 abbiamo registrato il record di
richieste di certifi cazione» dice Masiero. Segno che le aziende credono
nel marchio. Ma i consumatori saranno disposti a spendere di più per
legno e carta certifi cati? E quanto di più? «Non sempre c’è una sensibile
differenza di prezzo fra prodotti Fsc e non» spiega Masiero. «Quelli a
base di carta possono essere in vendita allo stesso prezzo, come ha fatto
per esempio Coop per la carta igienica o i fazzolettini e come fanno le
ferrovie tedesche per i biglietti del treno, stampabili anche su carta Fsc.
E anche le amministrazioni pubbliche si stanno muovendo, dopo che,
ad aprile 2008, è stato sbloccato il piano nazionale per gli acquisti verdi
pubblici. Molti bandi per la fornitura di arredi o carta prevedono ormai
la certifi cazione. L’unico problema è che tutto è lasciato alla buona volontà
delle singole amministrazioni, senza un piano organico».
Ma non avranno ragione quelli che dicono che, in fondo, marchi
come quello di Fsc servono solo a placare i sensi di colpa del consumatore,
dandogli una scusa per continuare a comprare, mentre la
vera scommessa sarebbe diminuire i consumi? «Proprio l’altro giorno
sono andato a sentire Maurizio Pallante, che parlava di società
della decrescita. Per certi versi concordo. Ma mettere le foreste sotto
vetro non si può. Un esempio? L’Italia è il primo partner del Camerun
per il settore legno. Il secondo è la Cina. Vale la pena smettere
di comprare legno certifi cato dal Camerun e lasciare campo libero
ai cinesi che, mi risulta, non mettono di solito le preoccupazioni
sociali e ambientali in cima alle loro priorità?». .

Note
1. Lester R. Brown, Piano B 3.0. Mobilitarsi per salvare la civiltà, Edizioni Ambiente,
2008, p. 183.
2. Per una panoramica sui progetti Redd vedi l’articolo “Last gasp for the forest”, in The
Economist, 26 settembre 2009.
3. Oecd, The economics of illegal logging and associated trade, 2007, scaricabile
all’indirizzo
http://www.oecd.org/dataoecd/15/43/39348796.pdf.
4. Wwf, Illegal wood for the European market, rapporto del luglio 2008 scaricabile all’indirizzo
http://assets.wwf.org.uk/downloads/european_market_wood_1.pdf.
5.Il Central Point of Expertise on Timber (Cpet) che fa capo al Department for Environment,
Food and Rural Affairs (Defra) del Governo britannico ha pubblicato a fi ne 2008 il
nuovo rapporto comparativo di cinque schemi di certifi cazione forestale: Csa, Fsc, Mtcc,
Pefc e Sfi . Fsc è risultato il migliore. Vedi http://www.proforest.net/cpet/documents.
6. Matilda Lee, “Can we trust the Fsc?”, in The Ecologist, 23 settembre 2009.

lunedì 5 aprile 2010


Il prezzo e il costo
di quel che compriamo

Non è più stagione di arance. Forse, però, di alcune arance faremmo bene a non dimenticarci: quelle di Rosarno, ad esempio. Ve le ricordate ancora, le immagini della rivolta? I giorni di guerriglia urbana fra extracomunitari e abitanti del paese. Gli spari, le sassaiole, le auto incendiate. E, poi, altre immagini: quelle dei posti (tuguri? rifugi? catapecchie? Fate voi) dove quegli immigrati, i raccoglitori di arance, vivevano.
No, non voglio star qui a distribuire torti e ragioni per quel che è successo in quell’angolo di Calabria. E’ che, non so a voi, ma a me quelle immagini, ogni volta che ho pelato un’arancia, hanno fatto venire in mente una domanda: il prezzo di quei tuguri, di quei rifugi, di quelle catapecchie è forse compreso nel prezzo al chilo delle arance che ho comprato? E, se non vi è compreso, non vorrà dire che le arance le pago poco (o comunque meno) proprio perché il costo aggiuntivo lo paga chi vive là dentro e sgobba per pochi euro l’ora?
Le arance, ovvio, sono solo un esempio. Se preferite, potete pensare ai vestiti che comprate per pochi euro sulle bancarelle del mercato. O ai gamberetti che, ormai, costano quasi meno dell’insalata. Non vi viene mai in mente di chiedervi se il prezzo e il costo di quel che compriamo siano la stessa cosa? O se ci siano invece costi che sullo scontrino non ci sono, perché quei costi non li paga chi compra (almeno non subito), ma qualcun altro?
Gli economisti la chiamano “esternalizzazione”: più riesci a “esternalizzare” i costi (cioè a farli pagare a qualcun altro, che non sia chi compra) e più puoi tenere bassi i prezzi, per vendere di più. Ma dove finiscono i costi “esternalizzati”? Svaniscono, forse? No davvero. Se faccio lavorare qualcuno in nero, senza assicurazione, di sicuro risparmio. E, se gli capita qualcosa, peggio per lui: pagherà di tasca sua il costo che io ho esternalizzato.
Più spesso ancora, capita che i costi esternalizzati li paghi l’ambiente. Entrate in un supermercato e comprate quattro mele. Stanno in una vaschetta di polistirolo, avvolte nel cellophane. Comodo, vero? Però quella vaschetta e quel cellophane, pochi giorni dopo, finiranno in discarica. Domanda: il costo dello smaltimento era forse compreso nel prezzo? No, però vi toccherà pagarlo lo stesso, nella bolletta dei rifiuti. Come in un reality: “sei stato esternalizzato”.
Silvia Pérez-Vitoria, autrice di “Il ritorno dei contadini” (Jaca Book, Premio Nonino 2009), al Festivaletteratura di Mantova ha spiegato: “Si dice che il cibo industriale costi poco: ma al prezzo che paghiamo dovremmo aggiungere il costo dei sussidi all’agricoltura, dei danni alla salute, tipo obesità, e di quelli all’ambiente”. Si potrebbero aggiungere, per dire, i costi delle sofferenze degli animali d’allevamento (leggete “Se niente importa” di Jonathan Safran Foer, se volete farvi un’idea). Ma vale lo stesso per un sacco di prodotti industriali, magari sfornati da impianti opportunamente “delocalizzati” in posti dove si può inquinare di più e retribuire di meno.
Si può fare qualcosa, per ridurre la forbice fra prezzo e costo? Certo. Obbligare, come si è fatto, i produttori d’auto a rispettare le normative sulle emissioni, vuol dire “internalizzare” i costi dell’inquinamento che prima venivano scaricati sull’ambiente (cioè sui polmoni di tutti). Lo stesso vale per le classi di consumo energetico degli elettrodomestici o per la certificazione energetica degli edifici. Così, direte voi, va però a finire che chi compra deve pagare di più. Forse. Ma è sempre meglio che pagare un prezzo senza saperlo. O farlo pagare a qualcun altro. Non siete convinti? Abbiamo iniziato con le arance, finiamo con i meloni: un paio d’anni fa, a Viadana (Mantova), non in Calabria o in Cina, Vijay Kumar, un immigrato indiano, è morto sotto il sole di luglio perché s’è sentito male mentre raccoglieva meloni e, visto che era in nero, il suo datore di lavoro l’ha fatto spostare lontano dai suoi campi invece di chiamare subito i soccorsi. Davvero li avreste comprati, quei meloni lì, se vi avessero fatto lo sconto?

martedì 16 febbraio 2010

Il cibo nel motore


Quando vi dicono che devono sbocciare nuove rivoluzioni verdi, magari da far germogliare grazie a semi Ogm, riflettete un attimo su quanto cibo, già oggi, finisce nei serbatoi di chi ha soldi, anziché nello stomaco di chi ha fame. Faccenda duretta da digerire. Ecco di seguito un articolo che avevo scritto tempo fa, sempre per la rivista Slowfood (nel numero 34 di giugno 2008, che aveva un'intera serie di articoli dedicati ai biofuels).
Ma vi segnalo anche quello di Nicola Borello ("Chi paga il prezzo dei carburanti verdi") nel Quaderno speciale della rivista Limes dedicato a "Il clima del G2", uscito a fine 2009, e la campagna lanciata da ActionAid "Zero meals per gallon"



Domanda: che cos’hanno in comune gli orangutan del Borneo
a corto di alberi su cui arrampicarsi, i messicani che protestano
per i prezzi delle tortillas, gli italiani che fanno lo sciopero della
pasta e i contadini colombiani cacciati dalle loro terre per far
posto alle palme da olio? Risposta: devono tutti buona parte
dei loro guai ai biocarburanti. Ma come? Proprio quelli che ci
avevano spacciato per l’alternativa pulita all’oro nero, i combustibili
“verdi”, la soluzione a tanti, se non tutti, i guasti causati
da questa umanità scellerata che sta riscaldando il pianeta fino
a mettere a rischio la sua stessa esistenza? In fondo, una volta
bruciati nei motori, i biocarburanti dovrebbero rilasciare solo la
Co2 assorbita durante la crescita delle piante usate per produrli,
senza appesantire il fardello di gas serra del pianeta. Dove
stanno dunque le controindicazioni? Non sarà la solita manovra
delle multinazionali del petrolio, pronte a truccare le carte pur
di convincerci che non c’è alternativa all’oro nero?
Purtroppo, pare proprio di no. E se l’opposizione ai biocarburanti
ha unito nello stesso fronte (nei giorni della stretta di mano fra
Bush e Lula per il patto sull’etanolo del marzo 2007) Fidel Castro
e gli ultra-liberisti dell’Economist, qualcosa di storto ci dev’essere
davvero. Tant’è che si moltiplicano nel pianeta gli appelli a prendersi
una pausa di riflessione sui biocarburanti. Una moratoria di
cinque anni, per pensarci su prima di fare passi falsi.
Problema numero uno: si calcola che, per fare il pieno di etanolo
a un serbatoio da 50 litri, servano 232 chili di mais. Quanti
basterebbero a un bambino per sopravvivere per un anno, in
un mondo in cui un bimbo sotto i 10 anni muore di fame ogni 5
secondi. Moralismo demagogico e populista, dirà qualcuno, che
obietterà che c’è poco da fare i sofisti, visto che c’è di mezzo la
sopravvivenza del pianeta. Sfortunatamente, oltre a porre qualche
indigesto dilemma etico, i biocarburanti sembrano in molti
casi non riuscire a mantenere nemmeno quanto promettono. In
altre parole, possono risultare più dannosi che utili al pianeta.
Deforestazione
Prendiamo Indonesia e Malesia. Da anni le associazioni ambientaliste
(in specie Friends of the Earth e Greenpeace) denunciano
la deforestazione in corso per far posto alle coltivazioni
di palma da olio. E la situazione è peggiorata da quando,
oltre che per scopi alimentari e cosmetici, l’olio di palma è
prodotto ed esportato, in gran parte in Europa, per produrre
biodiesel. Ma l’incendio delle foreste non è un problema solo
per le tigri di Sumatra o per gli oranghi del Borneo… Le piante
sono serbatoi viventi di carbonio, liberato nel momento della
combustione sotto forma di Co2. Altri giacimenti di carbonio
sono le torbiere che occupano vaste aree di Malesia e Indonesia.
Anche quelle sono prosciugate per fare posto alla palma
da olio (nella sola Indonesia è già capitato a oltre 10 milioni di
ettari di torbiere), ma la torba essiccata è attaccata dai batteri
e rilascia a sua volta Co2 nell’atmosfera. Il risultato l’ha ricordato
di recente John Vidal, direttore della sezione ambiente del quotidiano
britannico Guardian: «L’Indonesia risulta ormai il terzo
maggior emettitore mondiale di anidride carbonica, dopo gli
Usa e la Cina. La distruzione delle sue torbiere ammonta già a
circa il 4% di tutte le emissioni mondiali».
I soliti scettici diranno che basterebbe controllare che la palma
da olio sia prodotta senza intaccare né torbiere, né foreste. Ma,
come ha rivelato a Greenpeace in un rapporto pubblicato a novembre
2007 un grosso distributore di prodotti alimentari, non
c’è modo di verificare la provenienza dell’olio di palma, perché
gli oli provenienti da diverse regioni o nazioni, sono mescolati
insieme, prima di essere spediti via nave. Come ci si può fidare
delle rassicurazioni governative quando, come ha documentato
Lucy Williamson della Bbc in un reportage di inizio 2007, il
capo del dipartimento delle foreste del Borneo «pur sapendo
quanta terra fosse stata destinata alle palme da olio, non sapeva
quanta foresta quella terra contenesse»? Meglio allora andarci
cauti anche con le dichiarazioni del governo brasiliano che,
data l’estensione del paese, giura di poter rifornire di etanolo
da canna da zucchero mezzo mondo, senza toccare un ettaro di
foresta amazzonica. Del resto, come denuncia Conservation International,
proprio in Brasile l’80% di un altro importantissimo
serbatoio di biodiversità, il cerrado, è già stato alterato per far
posto alle coltivazioni di soia e mais. La distruzione va avanti al
ritmo di 2 milioni di ettari all’anno.
Corn in the Usa
Le cose non vanno meglio nel caso dell’etanolo “made in Usa”,
anzi (vedi primo box qui sotto). L’etanolo da mais ha reso evidente un altro fatto:
mettere il cibo nel motore non è solo un problema etico (e ambientale),
ma economico. La rivolta dei messicani per il rincaro delle
tortillas e le proteste degli italiani per il prezzo della pasta nascono
in buona misura dal fatto che l’industria dei biocarburanti ha fatto
schizzare alle stelle la domanda di granturco, l’offerta ha faticato
ad adeguarsi e i prezzi sono saliti. Visto che il mais rendeva bene,
molti agricoltori si sono messi a coltivarlo, abbandonando gli altri
cereali, come il grano, rincarati a loro volta. Se poi si considera
che più di un terzo dei cereali serve a ingrassare le mandrie, si
può capire perché rincari siano stati annunciati da mezza industria
alimentare, dai produttori di polli alla Coca-Cola (i dolcificanti dei
soft drinks sono spesso ricavati dal mais). Gli ottimisti dicono che,
gradualmente, l’offerta si adeguerà alla domanda. Intanto, come
segnala l’aggiornamento di dicembre 2007 del rapporto Crop prospects
and food situation della Fao, nonostante il raccolto record di
cereali a livello mondiale (+ 4,6% rispetto al 2006), il consumo ha
superato la produzione per la settima volta negli ultimi otto anni.
Risultato: le scorte mondiali di cereali non erano così risicate dal
1983 e sono ormai pari, in giorni, a meno di due mesi di consumo.
In un mondo in cui, a causa dei cambiamenti climatici, siccità, inondazioni
o altri disastri ambientali, con conseguenti carestie, sono
destinati ad aumentare, non è quel che si dice una bella notizia.
I soliti ottimisti diranno che alti prezzi agricoli sono una benedizione
per i contadini di tutto il mondo. Ma, da un lato, che
l’aumento dei prezzi finisca nelle tasche di chi lavora la terra, è
tutto da dimostrare. Dall’altro lato, si dà il caso che proprio nel
2007, per la prima volta nella storia dell’umanità, la popolazione
urbana nel mondo abbia superato quella rurale. Un trend che è
destinato a durare. Sfortunatamente, è proprio per gli abitanti
di slums, bidonvilles e altre periferie urbane che il rincaro dei
generi alimentari di base può fare la differenza tra il sopravvivere
e il morire di fame. Non a caso, il citato rapporto della Fao
si chiude segnalando che, nel 2007, rivolte per il cibo sono state
segnalate in Messico, Marocco, Uzbekistan, Yemen, Guinea,
Mauritania e Senegal. E si è arrivati anche al paradosso oltraggioso,
segnalato da Monbiot sul Guardian del 6 novembre 2007:
in Africa, a fine ottobre, il governo dello Swaziland ha deciso di
concedere migliaia di ettari per la coltivazione di manioca. Non
per sfamare i circa 400 000 abitanti dello Stato colpiti dalla carestia,
ma per alimentare una fabbrica di etanolo.
Insomma, quanto predetto nel luglio 2006 da Lester Brown, fondatore
del Worldwatch Institute e oggi direttore dell’Earth Policy
Institute, che cioè supermercati e stazioni di servizio sarebbero
entrati in competizione per i cereali, sta già avvenendo. Tanto
che gli anglosassoni, che adorano i neologismi, ne hanno già coniato
uno ad hoc: agfl ation, cioè inflazione di origine agricola.

La corsa ai biocarburanti
Purtroppo, il peggio deve ancora venire. L’etanolo, secondo
quanto ha scritto Harriett Williams sull’Ecologist del marzo
2007, ha coperto nel 2005 solo lo 0,8% della distanza percorsa
in quell’anno da tutti i veicoli circolanti al mondo. Ma Bush,
nel discorso sullo Stato dell’Unione 2007, ha detto di puntare a
sostituire con l’etanolo, in 10 anni, il 20% dei carburanti tradizionali.
Cosa che, come fanno notare Andrea Cappelli e Silvano
Simoni su Limes, «comporterebbe una produzione a regime
di 132 miliardi di litri di etanolo da mais, per la quale, a oggi,
sarebbe necessario disporre di 1,3 volte l’intera produzione
di mais statunitense!». Gli obiettivi dell’Unione Europea sono
appena meno ambiziosi: utilizzare il 5,75% di biocarburanti
entro il 2010. In questo caso si calcola che basterebbe “solo”
il 35-40% di tutta la terra arabile. Ma il passo successivo sarebbe
di arrivare al 20% nel 2020. Domanda retorica: ma non
sarebbe molto più sensato imporre alle case automobilistiche
standard per diminuire di percentuali corrispondenti i consumi
delle auto? Peccato che, come ha calcolato sempre Harriett
Williams, costruttori e venditori di auto Usa abbiano versato, a
partire dal 1989 (ed escludendo la campagna in corso), circa
105 miliardi di dollari nelle casse dei partiti politici americani
(per il 75% in quelle dei repubblicani) e che la Archer Daniel
Midlands, che da sola coprirebbe circa un terzo della produzione
di etanolo Usa, sia anch’essa fra i grandi sponsor del partito
repubblicano. Quanto alle case europee, si è ormai fatto
il callo al loro stracciarsi le vesti e predire collassi economici
ogni volta che Bruxelles impone vincoli anti-inquinamento ai
veicoli (in compenso è stata di recente presentata una Ferrari
a bioetanolo…).

Una moratoria di 5 anni
A questo punto, non dovrebbe essere difficile capire perché da
più parti si chieda una moratoria di cinque anni sulla produzione
di biocarburanti. Ha iniziato Monbiot, in un articolo pubblicato
dal Guardian il 27 marzo 2007. È partita poi una petizione
via internet (http://www.econexus.info/biofuels.html), sottoscritta
da centinaia di associazioni e privati cittadini. E, nel
gennaio di quest’anno, si è aggiunto al coro l’Environmental
Audit Committee della Camera dei Comuni inglese (il che non
ha trattenuto la Gran Bretagna e l’Ue dal procedere nei piani di
sviluppo dei biocarburanti).
Jean Ziegler, relatore speciale dell’Onu per il diritto al cibo, ha
chiesto la moratoria, nell’ottobre 2007, all’Assemblea Generale
delle Nazioni Unite, per mettere un freno ai rincari dei generi
alimentari di base. «L’International Food Policy Research
Institute (Ifpri)» ha ricordato Ziegler nel suo rapporto «prevede
che il numero di persone malnutrite cresca di 16 milioni
per ogni incremento di un punto percentuale nel prezzo reale
dei generi di prima necessità». E Joachim von Braun, direttore
dello stesso Ifpri, in un articolo scritto a settembre 2007 per
la Swiss Agency for Development and Cooperation, aggiunge
che «escludendo progressi tecnologici e l’adozione di regolamentazioni
basate su standard trasparenti, ci attendiamo
un aumento fra il 20 e il 40% dei prezzi alimentari da qui al
2020». La moratoria, nelle intenzioni di Ziegler, servirebbe
a concentrare la ricerca sui biocarburanti ottenuti da piante
non alimentari capaci di crescere su terreni aridi o semi-aridi,
come la jatropha o le alghe, a perfezionare le tecnologie
necessarie per i biocombustibili di “seconda generazione”
(vedi secondo box qui sotto), in cui l’etanolo è ottenuto per via cellulosica da
arbusti o scarti alimentari, e a creare le condizioni per far sì
che il business dei biocarburanti benefici davvero i contadini
e non solo le grandi corporations.
Fino ad allora, però, molto meglio continuare a mettere il cibo
nei piatti di chi ha fame, che nei serbatoi di chi ha soldi.


Di seguito i due box pubblicati a corredo dell'articolo
L’etanolo da mais
Gli studiosi concordano nel ritenere il mais la peggiore delle fonti di etanolo possibili. Considerando rese per ettaro, quantitàdi acqua e fertilizzanti necessari alla crescita ed energiaimpiegata nel processo produttivo, l’etanolo da mais rendenei motori meno di una volta e mezzo l’energia consumata perprodurlo (quello da canna da zucchero 8 volte, il biodieselda olio di palma 9). Eppure, negli Usa è in corso una vera epropria corsa all’etanolo, generosamente sussidiata dal presidenteBush, il quale si è anche premurato, alla faccia dellestrette di mano uffi ciali, di imporre una tariffa d’importazionesull’etanolo brasiliano, per metterlo fuori mercato negli StatiUniti. Bush, nel discorso sullo Stato dell’Unione 2007, ha tiratoin ballo il patriottismo e gli eroici agricoltori statunitensi chelimiteranno la dipendenza dai tanti stati-canaglia ricchi di oronero. Ma la verità l’ha forse detta ancora l’Economist, in unarticolo del 18 febbraio 2007: «L’etanolo è popolare perchéappare una opzione facile. Non richiede tasse più alte o razionamenti,fa felici gli agricoltori e fa apparire che il governostia facendo qualcosa. Purtroppo, affrontare il riscaldamentoglobale è probabile sia ben più doloroso».

Maneggiare con cura
Foglie di banana, gambi di frumento e granturco, pannocchiesgranate di mais, bagassa (la parte fi brosa della canna dazucchero). Scarti, insomma. Potrebbero essere loro i nuovi“giacimenti” di biocarburanti. A patto che si trovi un modoeconomico per ricavare l’etanolo per via cellulosica. Le potenzialitàsono enormi. Basti pensare che mentre le emissionidell’etanolo da mais nel suo intero ciclo di vita (coltivazione,produzione, trasporto e combustione) sono pari a 77 grammidi Co2 per mega Joule (quello della benzina è 94 g/MJ), perquello ricavato in via lignocellulosica sono di soli 11 g/MJ. E,trattandosi di scarti, non ci sarebbero confl itti con il mercatoalimentare. Il problema è che, per ricavare etanolo in questomodo, servono enzimi, al momento troppo costosi per rendereil procedimento economicamente competitivo. Ma esperimentiin tal senso si stanno già facendo con i pioppi in Sveziae con i salici in Nuova Zelanda.Altra frontiera è quella di utilizzare le alghe, allevate in mare oin bacini chiusi, alimentandole con scarichi fognari, per produrrebiodiesel. Anche in questo caso le rese promettono diessere altissime: fi no a 100 tonnellate di olio per ettaro, cioèquasi 250 volte la resa della soia. Ma anche qui la sperimentazioneè solo agli inizi, anche se la Shell ha annunciato, l’11dicembre scorso, l’apertura di un impianto dimostrativo nelleisole Hawaii.Certo, anche per i biocarburanti di seconda generazione irischi non mancano. Gli Ogm scacciati dalla porta potrebberorientrare dalla fi nestra, visto che già si favoleggia di enzimitransgenici e alberi geneticamente modifi cati per abbatterneil contenuto di lignina. E Craig Venter, uno dei mappatori delmenoma umano, a dicembre, nella sua Richard Dimbleby lecture alla Bbc, ha addirittura prospettato di risolvere i problemienergetici planetari creando in laboratorio batteri in grado disintetizzare carburanti da fonti rinnovabili.Inoltre, anche le piante non alimentari, come la jatropha,potrebbero rivelarsi deleterie se coltivate su larga scala damultinazionali o grandi possidenti stranieri, pronti a scacciarecon la forza i piccoli agricoltori dalla terra su cui hannomesso gli occhi.Insomma, anche i biocarburanti di seconda generazione andrannomaneggiati con cura e non certo abbandonati alla“mano invisibile” del mercato. Forse però, una volta fi ssati ipaletti giusti, potrebbero davvero diventare, come si augurano Andrea Cappelli e Stefano Simoni su Limes, «non unprodotto diabolico, che affama i poveri per dare ai ricchi ilcombustibile per i loro suv, ma un prodotto democratico, chepotrebbe consentire una vera crescita economica e sociale apaesi da sempre ai margini del mondo che conta».

giovedì 11 febbraio 2010

Il vero costo della costata


E, dopo il pesce, ecco qualcosa che avevo scritto sul consumo di carne, sempre per la rivista Slowfood. Spero che la lettura non risulti troppo indigesta...

“Molta gente va in palestra il lunedì. Con i “lunedì senza carne”, sarà un po’ come andare in palestra, ma con il vantaggio aggiuntivo di proteggere il pianeta”. Quando, a fine giugno 2008, l’ex beatle Paul McCartney lanciò, dalle colonne del magazine “The Grocer”, la proposta del “lunedì senza carne”, i più avranno scrollato le spalle, pensando fosse solo la stravaganza di una popstar vegetariana: che c’entrerà mai una bistecca con la salvezza del pianeta?
Quando però, due mesi e mezzo più tardi, la stessa proposta di un giorno alla settimana meat-free venne fatta da Rajendra Pachauri, a qualcuno sarà venuto il sospetto che la bistecca qualcosa c’entrasse davvero. Perché Pachauri è il presidente dell’Ipcc (Intergovernmental panel on climate change), l’organismo Onu che si occupa di cambiamenti climatici, premiato nel 2007 con il Nobel per la pace. Uno, insomma, che di minacce ambientali se ne intende.
Per spiegare quale fosse il costo ecologico della costata, Pachauri ha servito ai 400 invitati al Savoy Place di Londra per la Peter Roberts memorial lecture (promossa dal gruppo Compassion in World Farming)[1], una serie di dati piuttosto indigesti, tratti in gran parte da un recente rapporto della Fao, inquietante già dal titolo: Livestock’s long shadow[2] (l’ombra lunga dell’allevamento).

L’ombra lunga dell’allevamento
Per capire quanto sia lunga tale ombra sul futuro del pianeta, ecco alcuni dati del rapporto Fao. L’allevamento produce l’80% delle emissioni di gas serra di tutto il comparto agricolo e il 18% del totale complessivo mondiale di emissioni. Più, sorpresa, di quante ne produca il settore trasporti. Ad essere più precisi, il 9% delle emissioni totali di anidride carbonica (soprattutto a causa delle foreste bruciate per far posto ai pascoli), il 37% delle emissioni totali di metano (un gas serra 23 volte più potente della CO2, rilasciato, in questo caso, dal “tubo di scappamento” dei ruminanti) e, causa soprattutto il letame, il 65% di quelle di ossido d’azoto (296 volte più potente della CO2). In aggiunta, all’allevamento si deve anche il 64% delle emissioni di ammoniaca, che contribuisce in modo significativo alle piogge acide e all’acidificazione degli ecosistemi.
Ma l’ombra lunga dell’allevamento si estende anche altrove. Ad esso, dice la Fao, è riconducibile l’8 per cento dell’uso mondiale di acqua potabile e buona parte del suo inquinamento. “Statistiche mondiali non sono disponibili – fa notare il rapporto – ma negli Stati Uniti l’allevamento si stima sia responsabile del 55% dell’erosione dei suoli e dei sedimenti, del 37% dell’uso totale di pesticidi, del 50% dell’uso di antibiotici e di un terzo del carico di azoto e fosforo nelle fonti di acqua potabile”.
Magari vi si sta già guastando l’appetito. Ma non è finita. Sempre secondo il rapporto Fao, 3 miliardi e 433 milioni di ettari (il 26% dell’intera superficie terrestre libera dai ghiacci) sono dedicati al pascolo. E circa il 20 per cento di tali terreni (con punte del 73% nelle aree più aride) sono, in misura maggiore o minore, degradati.
Deforestazione, erosione dei suoli, inquinamento delle acque non possono che avere, a loro volta, un impatto sulla perdita di biodiversità. E, al riguardo, la Fao ricorda che, secondo la Iucn (World Conservation Union), autrice della Red List delle specie minacciate, circa il 10 per cento di queste ultime soffrono di perdita dell’habitat a causa dell’allevamento.
E queste sono le medie globali. A livello locale, le cose possono andare anche peggio. L’acqua potabile per dissetare le mandrie, ad esempio, a livello mondiale pesa per meno dell’1 per cento dell’uso totale. Ma in Botswana, ad esempio, la percentuale sale al 23 per cento. E se il contributo dell’allevamento alla produzione di gas serra è, a livello globale, del 18 per cento, in Brasile ammonta a ben il 60 per cento del totale nazionale.
E questo potrebbe essere solo l’antipasto. Perché altri milioni di commensali, soprattutto nei grandi giganti asiatici in crescita (Cina e India), stanno per aggiungersi al banchetto. “La produzione globale di carne – si legge ancora nel rapporto Fao – è destinata a più che raddoppiare, da 229 milioni di tonnellate nel 1999/2001 a 465 milioni di tonnellate nel 2050, e quella di latte da 580 a 1043 milioni di tonnellate”. In assenza di correttivi, aggiunge il rapporto “se la produzione raddoppia, anche il danno ambientale raddoppierà”.



I polli di Trilussa
Certo, mai come in questo caso, vale il detto di Trilussa: se una persona mangia due polli e uno nessuno, per la statistica è come se ne avessero mangiato uno a testa. Il problema del consumo di carne cambia a seconda della parte del mondo da cui lo si guarda. L’allevamento, ricorda la Fao, rappresenta solo l’1,4% del Pil mondiale (anno 2005). “Ma – aggiunge il rapporto – in termini di mezzi di sostentamento, introiti e impiego è molto più importante di quanto suggerirebbe il suo modesto contributo all’economia mondiale”. Ad esempio, esso fornisce un supporto vitale a circa 987 milioni di poveri che vivono nelle aree rurali (pari al 36 per cento di tutti quelli che vivono con meno di due dollari al giorno). E, come ha rivelato uno studio condotto in Kenya e pubblicato nel 2003, “i bambini hanno dimostrato di trarre grandi benefici, in termini di salute sia fisica che mentale, da un modesto aumento di latte, carne o uova nella loro dieta”. Per contro, i prodotti di origine animale danno, come noto, il loro contributo ai problemi di salute del miliardo di persone adulte sovrappeso (e ancora più a quelli dei 300 milioni di obesi mondiali), sempre più spesso colpite da diabete, malattie cardiovascolari e vari tipi di tumori.
Tutto ciò non stupirebbe peraltro la buonanima di Trilussa, visto che, sempre secondo la Fao, un indiano mangia in media solo 5 chili di carne l’anno, mentre uno statunitense 123 (dati 2003).

Bocconi indigesti
A questo punto, dovrebbe essere chiaro per chi, fra ricchi e poveri, suona la campana dell’astinenza dalla carne. Ma il giorno senza carne proposto da McCartney e Pachauri (e si potrebbe aggiungere l’oncologo ed ex ministro Umberto Veronesi, che di giorni senza carne ne propone due alla settimana[3]), servirebbe davvero a qualcosa? Il presidente dell’Ipcc, nella citata conferenza, si è dilettato a fare qualche esempio. Gustoso. Per una cena a base di riso (226 grammi), cavolfiori (113,4 grammi), melanzane e broccoli si emettono in media gas serra pari a 181 grammi di CO2. Una bistecca di manzo da 170 grammi ne fa emettere 25 volte tanto: oltre 4 chili e mezzo. Se preferite, per produrre un chilo di carne di manzo si emettono gas serra equivalenti a 36,4 chili di CO2 (pari a quelli che un’auto di media cilindrata emette in 250 chilometri) e si consuma altrettanta energia che quella di una lampadina da 100 watt accesa per 20 giorni.
Non va meglio se fate il conto in litri d’acqua: per produrre un chilo di carne di manzo ne servono 15.500 litri. Per un chilo di mais ne bastano 900, per uno di riso 3 mila, per un chilo di pollo 3.900 e per uno di maiale 4.900. Tirando le somme, ha sintetizzato Pachauri, “con un ettaro coltivato per produrre verdure, frutta, cereali, si possono sfamare fino a 30 persone. Se lo stesso ettaro viene utilizzato per produrre uova, formaggio e carne, si sfamano al massimo da 5 a 10 persone”. E, in settant’anni di vita, un vegano (che oltre alla carne rifiuta anche pesce, uova e formaggio) fa risparmiare al nostro inquinatissimo pianeta circa 100 tonnellate di CO2 equivalente.
Volendo, si può vedere la faccenda anche in modo diverso. Tornando al parallelo con l’inquinamento causati da auto, camion e altri mezzi di trasporto. Secondo uno studio americano[4], passare da una dieta “carnivora” a una vegetariana equivarrebbe a passare dalla guida di un Suv a quella di una Toyota Prius (l’ormai celebre auto ibrida benzina-elettricità).


Il buon esempio
Come per le emissioni di gas serra legate a industrie e trasporti, anche per quelle legate al consumo di carne spetterebbe al ricco Occidente dare il buon esempio. E qualche rinuncia non dovrebbe essere difficile se, come ha calcolato Caroline Davies dell’Observer, un inglese, nell’arco della sua vita, mangia in media l’equivalente di 8 manzi, 36 pecore, 36 maiali e 550 tra polli, galline e affini.
Non ci sono invece molte speranze di evitare che i popoli in via di sviluppo continueranno a fare il possibile per assicurarsi preziose proteine di origine animale. Né ci sarebbe da augurarselo, se si pensa che, ad esempio, come ricorda la Fao, un ricerca di lungo periodo condotta in Kenya ha dimostrato che “soprattutto i bambini hanno dimostrato di beneficiare grandemente, in termini di salute sia fisica che mentale, quando modeste quote di latte, carne o uova sono aggiunti alla loro dieta”. Difficile, quindi, non condividere quanto si legge nel rapporto Fao poche righe più avanti: “Si potrebbe ben argomentare che il danno ambientale dell’allevamento potrebbe essere significativamente ridotto diminuendo l’eccessivo consumo di prodotti dell’allevamento tra i popoli ricchi”. Altrettanto condivisibili le raccomandazioni Fao a “internalizzare” i danni ambientali dell’allevamento nel costo di carne, uova e prodotti lattiero-caseari, a sfruttare il biogas per ridurre gli scarichi inquinanti e produrre energia, o l’invito a migliorare i sistemi di irrigazione, fermare la deforestazione e introdurre sistemi di coltivazione più rispettosi della terra. Meno condivisibile, semmai, è la convinzione degli estensori del rapporto che ci sia “il bisogno di accettare che l’intensificazione e forse l’industrializzazione della produzione di bestiame sia l’inevitabile esito di lungo termine del processo di cambiamento strutturale in corso per la maggior parte del settore”.
Insomma, sull’altare dell’efficienza rischia di essere immolata ogni speranza di tornare a forme di allevamento più in armonia con in ciclo naturale delle cose.

La carne non è tutta uguale
Non a caso, contro queste conclusioni si scaglia, dalle colonne dell’Ecologist di ottobre 2008, Simon Fairlie, direttore della rivista ambientalista The Land. Che oppone all’allevamento industriale le virtù di quello, per così dire, marginale (default livestock): “Molti contadini in mondo in via di sviluppo dipendono da ruminanti alimentati con erba per trazione, letame, carburante e latte (…). Sbarazzarsi di queste mucche per ridurre le emissioni di metano sfocerebbe in un aumento della fame. Per contro, sbarazzarsi del sistema Usa dei feedlots (i tipici allevamenti di ingrasso statunitensi, ndr), nei quali i manzi da carne sono ingrassati con una dieta basata sui cereali, sarebbe un beneficio per tutti”. E Richard Young, consigliere della Soil Association, nelle stesso numero dell’Ecologist (in un articolo dal titolo significativo: “Not all meat is created equal”, non tutta la carne è uguale) conclude: “I messaggi semplicistici “non mangiate carne” o “la carne rossa è nociva” rischiano di far più male che bene. C’è una crescente evidenza che un più sensato ed ecologicamente responsabile messaggio salutistico per i consumatori inglesi sarebbe incoraggiare la gente a mangiare meno carne e a mangiare carne di animali alimentati con erba; e pecore, biologiche se possibile; e polli e maiali biologici”.
Tendendo sempre in mente, aggiungiamo noi, quello che il poeta-contadino Wendell Berry scriveva già nel 1989: “Chi consuma cibo deve rendersi conto che l’atto di mangiare ha luogo inevitabilmente nel mondo, che è inevitabilmente un atto agricolo e che il modo in cui mangiamo determina in misura considerevole il modo in cui si usa il mondo”[5].
Luca Angelini

[1] La registrazione audio dell’intervento di Pachauri è scaricabile all’indirizzo http://coinet.org.uk/discussion/climate_radio/drrp. Le slides dell’intervento sono invece disponibili all’indirizzo http://www.ciwf.org.uk/includes/documents/cm_docs/2008/l/london_08sept08.pps
[2] Il rapporto è disponibile all’indirizzo http://www.fao.org/docrep/010/a0701e/a0701e00.htm

[3] Corriere della Sera, 25 settembre 2008, pagina 11.
[4] ESHEL Gidon e MARTIN A. Paula, “Diet, Energy, and Global Warming”, in Earth Interaction, volume 10 (2006), paper 9, pp. 1-17. Scaricabile all’indirizzo http://geosci.uchicago.edu/~gidon/papers/nutri/nutriEI.pdf

[5] BERRY Wendell, “Il gusto di mangiare”, in La risurrezione della rosa, Slow Food editore 2006, p.131.