domenica 28 ottobre 2012
Non di solo cemento vive l'uomo
Nel post precedente si parlava della “buccia della Terra” e dei costi ambientali della cementificazione dei suoli (a proposito: speriamo che il disegno di legge Monti “anti-cemento” passi indenne l’esame del Parlamento). Di recente mi è capitato di ascoltare due volte (al Festivaletteratura di Mantova e al Salone del gusto/Terra Madre di Torino) Antonio Saltini, docente di Storia dell’agricoltura all’Università statale di Milano e autore di una monumentale Storia delle scienze agrarie. E mi ha fatto venir voglia di ritornare sull’argomento. Più con le sue parole che con le mie. “Dagli anni Cinquanta in poi – ha ricordato Saltini – l’Italia si è mangiata, con il cemento, un terzo delle sue pianure fertili: due milioni di ettari su sei. La metà dei quali in Pianura Padana”.
Sarà anche vero, direte voi. Ma, al posto dei campi, sono arrivati strade, capannoni, industrie, aeroporti, case. Il progresso, insomma. E, con il progresso, sono arrivati i soldi e, con i soldi, la possibilità di comprare da altri il cibo che non produciamo più noi.
Giusto. Ma, secondo Saltini, quel che è stato vero fino ad oggi, non è detto che lo sarà in futuro. Basta fare qualche calcolo. Gli esperti, a partire da quelli della Fao, calcolano che, da qui al 2050, anche se la popolazione mondiale dovrebbe crescere di un terzo scarso (da 7 a 9 miliardi), per poi stabilizzarsi, la produzione agricola dovrebbe invece raddoppiare. Perché? Intanto perché quasi un miliardo di persone è ancora sottonutrita e sarebbe davvero ora di metter rimedio a questa vergogna. E poi perché la Cina, l’India, il Brasile e gli altri paesi emergenti si stanno arricchendo pure loro. E arricchendosi stanno cambiando dieta. Mangiando più carne. La Cina, per dire, è passata dai 26 chili di carne pro capite l’anno del 1990, ai 54,1 del 2007, il Brasile da 50 a più di 80 e così via (l’India è ancora in fondo alla classifica, con poco più di 5 chili a testa, ma anche lì la tendenza è alla crescita). Le calorie della carne però sono, per così dire, meno “efficienti” di quelle dei cereali: per produrre un chilo di carne di manzo, per fare un esempio, servono in media 8 chili di mais (e 15 mila litri d’acqua). Se pensate che un americano medio mangia più di 120 chili di carne a testa (un italiano più di 90) si fa presto a capire che se il miliardo e passa di cinesi arrivasse a quei livelli, la domanda di cereali esploderebbe. E con essa i prezzi e la concorrenza per accaparrarsi le derrate (o addirittura la terra, sfrattando i contadini, come sta succedendo in Africa: digitate in internet “land grabbing” per farvi un’idea). Sta già accadendo. Anche perché, nel frattempo, in Usa e in Europa s’è deciso di usare i cereali non solo per alimentare il bestiame invece delle persone, ma anche per far marciare le auto (etanolo) e produrre energia (biogas e simili). Basta produrre più cereali, direte voi. Ma non è così semplice. E’ vero che, fra il 1950 e il 2000, la popolazione mondiale è raddoppiata e la produzione alimentare è triplicata. Ma, spiega Saltini, i fattori che hanno consentito quel prodigio sono in gran parte esauriti: di terre arabili non ancora sfruttate ne sono rimaste poche; irrigare nuovi terreni con grandi progetti di sbarramento fluviale comporterebbe più danni ecologici che benefici; idem per un aumento dell’uso di fertilizzanti e antiparassitari. Resta, per Saltini, la ricerca genetica, che ha consentito la Rivoluzione verde in Messico e India e potrebbe consentirne una seconda, con gli Ogm. Su quest’ultimo punto non sono molto d’accordo con lui, ma su un altro è difficile non concordare: “E’ verosimile che negli ultimi cinque lustri l’Italia abbia coperto di cemento la superficie corrispondente ai due terzi del proprio fabbisogno di frumento tenero. Che oggi non saprebbe più dove produrre. Eravamo certi di poterlo acquistare in cambio dei nostri televisori, delle nostre scarpe, di camicie, pantaloni e piastrelle ceramiche. Oggi televisori, scarpe, camicie, pantaloni e piastrelle ceramiche, ai nostri antichi clienti le vende la Cina. Che vuole mangiare quello che, fino ad oggi, abbiamo mangiato noi”. Saltini scriveva queste righe in un articolo del 2005. Avete per caso l’impressione che, da allora, le cose siano cambiate in meglio?
Postilla: da quel che ho capito, il professor Saltini non ha molta fiducia nella possibilità di un cambio degli stili di vita alimentari. Io invece credo che dovremmo iniziare a mangiare meno carne (e sprecare meno cibo) per scelta, prima di essere costretti a farlo per necessità. Sperando che cinesi, brasiliani eccetera lo considerino un esempio da imitare.
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domenica 13 maggio 2012
La buccia della Terra
Chissà perché ma, se ci fate caso, dalle mele c’è sempre qualcosa da imparare. Da quella che Eva offre ad Adamo, e la Strega Cattiva a Biancaneve, a quella che Steve Jobs ha impresso sui suoi Mac, iPod, iPhone, iPad; dalla Grande Mela (la città dove pare tutto succeda prima che altrove), a quella che, se mangiata ogni giorno, si dice tolga il medico di torno.
Anche questa è la storia di una mela. Una mela che va colta sì, ma più che altro come esempio. Ed è un esempio rubato (vabbè, diciamo preso in prestito) dal professor Paolo Pileri, docente di pianificazione urbanistica al Politecnico di Milano, che m’è capitato d’ascoltare di recente. Il professore ha preso, giustappunto, una mela (credo fosse una Red delicious, ma non è che faccia differenza) e l’ha divisa in quattro spicchi. Ed ecco l’esempio. “Immaginate che questa mela sia il nostro pianeta, la Terra – ha detto il professore -. Se vogliamo calcolare quant’è il suolo a nostra disposizione, tre spicchi li dobbiamo mettere da parte, perché stanno sott’acqua, coperti da mari, laghi e oceani. Dello spicchio rimasto, metà va anch’esso messo da parte, perché è coperto dai ghiacci ai poli e alle latitudini estreme. Di quel che resta, un altro 40% non è coltivabile, perché paludoso, arido, scosceso o in alta montagna”.
Insomma, della mela iniziale, resta ben poco. Ma non è finita. “La parte fertile del suolo – ha spiegato Pileri – è solo quella più superficiale. Poche decine di centimetri, dove si concentra l’humus. Insomma, la buccia dello spicchio rimasto”.
Da quella fettina di buccia, però, noi umani (ormai a quota 7 miliardi) dipendiamo per moltissime ragioni. Per il cibo, ovvio. Ma il terreno ha anche la capacità di assorbire acqua e anidride carbonica. E di tenere in vita ecosistemi complessi. Almeno fino a quando non viene coperto dal cemento. Perché, a quel punto, è come se un pezzetto di quella buccia ce lo mangiassimo.
Una scempiaggine, direte voi. Già. Però si dà il caso che sia proprio quello che stiamo facendo.
Secondo la banca dati regionale Dusaf (Destinazione d’Uso dei Suoli Agricoli e Forestali) e il Centro di ricerca sui consumi di suolo, tra il 1999 e il 2007, in Lombardia, la popolazione è cresciuta del 7,5%, ma il suolo urbanizzato (un modo più elegante per dire cementificato) è cresciuto dell’11,3%. Nella nostra regione, dice il rapporto Ambiente Italia 2011, il suolo viene consumato con una velocità di 4,4 metri quadrati per abitante all’anno. Cioè 117.000 metri quadri al giorno. Vuol dire che, di quella buccia, ci mangiamo sette piazze del Duomo di Milano al dì. E se guardiamo al nostro piccolo, nel 2010, la provincia di Mantova è stata, di gran lunga, quella che in Lombardia ha consumato più suolo pro capite: 15, 6 metri quadrati per abitante, contro una media regionale di 4,4 e nazionale di 3,9. Fra il 1999 e il 2007, la superficie antropizzata (altro sinonimo di cementificata) è cresciuta del 20%.
Ecco, se la prossima volta vi dicono che della mela bisogna mangiare anche la buccia, sappiate che dipende dalla mela.
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venerdì 13 gennaio 2012
Carne della nostra carne
Chissà come se la passa, in queste ore, Danica May Camacho? Mentre leggete queste righe starà forse poppando. E’ nata il 31 ottobre dell’anno scorso, in un ospedale di Manila, capitale delle Filippine. Perché dovrebbe importarvi di Danica? Semplice, lei è stata simbolicamente scelta dalle Nazioni Unite come “seven billionth baby”, la bambina numero sette miliardi. Tanti siamo, ormai, noi bipedi umani su questo pianeta.
Ogni volta che aumentiamo di un altro miliardo, lo spettro di quella buonanima del reverendo Thomas Robert Malthus torna a fare capolino. E con lui la fosca previsione contenuta nel suo “Saggio sul principio della popolazione” (1798), secondo la quale quest’ultima era destinata a crescere molto più rapidamente dei mezzi necessari a sostentarla (per i più pignoli: le bocche sarebbero aumentate in progressione geometrica, gli alimenti in progressione aritmetica).
Anche i primi vagiti di Danica May Camacho hanno risvegliato i profeti di sventura: “Siamo troppi, non ci sarà abbastanza cibo per sfamare tutti”.
La Fao, poche settimane più tardi, ha invece spiegato che anche nel 2050, quando dovremmo essere 9 miliardi e passa (e i demografi dicono che, visti gli attuali tassi di fertilità/mortalità, è probabile che non si andrà oltre, con buona pace di Malthus) si potrà sfamare l’intera umanità. A patto, però, di produrre il 70% in più di cibo, rispetto ad oggi. Per dire, un miliardo di tonnellate l’anno in più di grano, riso e altri cereali e 200 milioni di tonnellate aggiuntive di carne.
Mica facile, se si pensa che, secondo un altro recente rapporto della stessa Fao (1), il 25% della terra coltivabile è “altamente degradata” (erosione dei suoli, scarsità idrica, perdita di biodiversità); un altro 8% è “moderatamente degradata”, il 36% è stabile e solo un 10% è in miglioramento. Se poi pensate che si possa pescare dal mare quel che non si riesce a coltivare sulla terra, sappiate che, secondo uno studio di Boris Worm e altri, pubblicato nel 2006 dalla rivista Science (2), se i ritmi di pesca restassero quelli attuali, il 2048 sarebbe l’anno dell’ultimo pesce, ovvero del collasso di tutti gli stock ittici esistenti (per farvi un’idea dell’ecatombe marina in atto potete dare un’occhiata al documentario di Robert Murray “Al capolinea”, pubblicato in dvd+libro da Feltrinelli Real cinema e Slow Food).
Dunque, a distanza di due secoli e mezzo, il reverendo Malthus finirà per avere ragione? Mica tanto. Perché, a dirla tutta, il vero problema non è la mancanza di cibo. Se è vero che, già oggi, 925 milioni di persone soffrono la fame, un miliardo e 328 milioni soffrono di iper-nutrizione. La fame uccide 36 milioni di persone l’anno (5,6 milioni dei quali bambini sotto i 5 anni), ma le malattie connesse a obesità e dintorni non sono da meno: 17,5 milioni di morti l’anno per malattie cardiovascolari, 7,9 per tumori, 3,8 per diabete.
In termini di calorie, molti esperti concordano nel dire che, già oggi, se ne producono abbastanza per sfamare non 7, ma 12 miliardi di persone. Come mai non finiscano nelle bocche giuste, è un problema complesso. Ma uno dei tanti motivi è, ad esempio, che il 40% del mais mondiale e oltre il 90% della soia non finiscono in stomaci umani, ma in quelli di polli, maiali e manzi. Perché a noi la carne piace e non ci vogliamo rinunciare. Eppure qualche rinuncia non dovrebbe essere difficile se, come ha calcolato Caroline Davies dell’Observer, un inglese, nell’arco della sua vita, mangia in media l’equivalente di 8 manzi, 36 pecore, 36 maiali e 550 tra polli, galline e affini. E in Italia? La Fao dice che ne mangiamo 92 chili l’anno a testa: più di quattro volte le quantità consigliate. Per produrre un chilo di carne di manzo si emettono 36,4 chili di Co2 (il principale dei gas serra responsabili dei cambiamenti climatici: tant'è che secondo il rapporto Fao "Livestock's long shadow" l'allevamento produrrebbe il 18% del totale dei gas serra, cioè più del sistema dei dei trasporti) e si consumano 15.500 litri d’acqua (contro i 900 necessari per un chilo di mais).
Perciò, se un mondo di 7 miliardi di persone vi risulta indigesto, non chiedete la ricetta al reverendo Malthus. Piuttosto, cambiate alla svelta il vostro menù. Danica May Camacho vi ringrazierà.
(1) The State of the World’s Land and Water Resources for Food and Agriculture (SOLAW), 2011
(2) Worm, et al. (2006) "Impacts of Biodiversity Loss on Ocean Ecosystem Services". Science, 314 (5800): 787-790.
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