martedì 22 febbraio 2011

Lo sciacquone dello scandalo


C’era una volta il presidente di uno Stato lontano, che raccontò d’esser solito far pipì sotto la doccia. C’era un’altra volta, in una grandissima città, un sindaco che rivelò che lui la pipì la faceva nel water, ma non tirava l’acqua. C’era una terza volta, il capo di una di quelle associazioni che hanno a cuore gli animali, che disse che lui la doccia la faceva non più d’una volta alla settimana.
“Ma cos’è, la favola dei Tre Sporcaccioni?” – obiettò con disgusto Tizio, sentendo questa storia. “E vi sembrano favole da raccontare ai bambini?” – si scandalizzò Caio. “E, se davvero è una favola, quale mai sarebbe la morale?” – chiese schifato Sempronio. “Forse che anche i ricchi puzzano” – disse Tizio (che a volte confondeva le favole con le telenovelas). “O magari che il potere dà alla testa e anche un po’ più giù” – buttò lì Caio, con un risolino. “Beh, meno male che quei tre li hanno almeno costretti a confessare le loro porcherie” – concluse Sempronio.
“Non è che li abbiano costretti. L’hanno detto senza vergognarsi, anzi”. A parlare era stato un bimbetto, nero di pelle e anche un po’ d’umore. “Sporcaccioni e pure spudorati!” – s’inalberò Tizio. “Ma hanno detto di farlo per risparmiare l’acqua. E anche la carte igienica” – replicò il bambino. “Sporcaccioni, spudorati e pure pidocchiosi” – commentò Caio. “Proprio non volete capire” – disse il bambino, il cui umore cominciava a diventare anche più nero della pelle. Era un bambino magro e malvestito, ma doveva aver studiato, perché cominciò a snocciolare una serie di numeri e dati (e questo, ammettiamolo, è un po’ strano: nel Paese da cui veniva lui, i bambini che vanno a scuola esistono, purtroppo, quasi solo nelle favole). “Non lo sapete che tutta la carta igienica che, ogni anno, finisce nei water o in discarica, è pari a più di 25 mila alberi tagliati al giorno? O che ogni statunitense usa ogni giorno, in media, 57 fogli di carta igienica, che moltiplicati per 300 milioni di americani fanno 3 milioni e 200 mila tonnellate di carta l’anno? E che, se faceste pipì nella doccia, evitando così uno scarico dello sciacquone, risparmiereste 4380 litri d’acqua l’anno?”
“Suvvia, bel bambino, di acqua al mondo ce n’è talmente tanta…” – lo interruppe Caio, battendogli la mano sulla testa per compatirlo. “Sì – obiettò il bimbo - ma se ci stesse tutta in una tanica da 5 litri, quella potabile, cioè non salata, sarebbe un bicchiere scarso e di quel bicchiere ne potremmo bere solo una tazzina da caffè, perché l’altra sta nei ghiacciai perenni o piove su mari e oceani. E, allora, non vi sembra uno scandalo usare l’acqua potabile anche per sciacquare il water? Senza avere, magari, nemmeno il getto regolabile o a due intensità? E non potreste, almeno, usare carta igienica riciclata, invece di quella vergine a tre o quattro veli?”
Tizio, Caio e Sempronio pensarono invece che il vero scandalo fosse lasciar a zonzo un bimbetto tanto impertinente e lo piantarono lì. Lui capì che l’acqua potabile avrebbe continuato a sognarsela di notte e a vedere le sue foreste tagliate di giorno. Ma qualcun altro, a furia di sentir parlare di Tizio, Caio e Sempronio, pensò che, forse, la morale di questa favola l’avevano già scritta i latini: Oportet ut scandala eveniant, è opportuno che gli scandali avvengano. “Purché – aggiunse – ci si scandalizzi per le cose giuste”.

P.S.: i Tre Sporcaccioni di questa favola esistono davvero. Il primo si chiama Hugo Chávez e governa (nel bene e nel male) il Venezuela. Il secondo è Ken Livingstone, ed è stato per 8 anni sindaco di Londra. Il terzo è Fulco Pratesi, leader storico del Wwf Italia. Anche i numeri di questa favola sono veri, almeno stando al numero di maggio/giugno 2010 di Worldwatch, la rivista del WorldWatch Institute, all’associazione ambientalista brasiliana Sos Mata Atlantica (che ha dato vita alla campagna Faça Xixi no Banho, “fai pipì nella doccia”) e ai dati sull’acqua potabile dello speciale dell’Economist del 22/28 maggio 2010. Se anche la morale di questa favola è vera, quello decidetelo voi.

La favola delle api


C’era una volta un filosofo e poeta satirico, olandese di nascita e britannico d’adozione, che di nome faceva Bernard de Mandeville. Se qualcuno ancora si ricorda di lui, è in ragione del titolo, e ancor più del sottotitolo, di un poemetto che scrisse più o meno tre secoli fa, nei primi anni del Settecento: La favola delle api, ovvero vizi privati e pubbliche virtù. Raccontavano, quei versi, di un alveare prosperoso sì, ma così brulicante d’ineguaglianze, sopraffazioni, sotterfugi e cupidigie (di privati vizi, insomma), da suscitare, in alcune delle api, un pungente desiderio di giustizia e probità. Giove in persona, il deus ex machina di quella favola, si piccò d’esaudirlo, quel desiderio. Ma più per dispetto che per magnanimità. Da quando, infatti, equità e rettitudine vi trovarono albergo, l’alveare vide piano piano volar via tutta la sua prosperità.
La morale della favola era che la nascente società dei capitali e dei capitani d’industria (ché quello rappresentava l’alveare) poteva fondarsi soltanto sul lusso, lo sperpero e la brama di ricchezza. Per dirla con le parole di Mandeville, la “facile contentatura” è “la peste dell’industria”, mentre “il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtù da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa”.
Tra i contemporanei del nostro Bernard, c’era un altro filosofo di gran vaglia: Giambattista Vico. E, forse, a Mandeville sarebbe tornata alla mente la vichiana teoria dei corsi e ricorsi storici se avesse saputo che, trecent’anni dopo la sua, un gruppo di rampanti capitani d’industria si sarebbe fatta raccontare un’altra favola delle api per imparare qualcosa di una diversa rivoluzione industriale. Quella che chiamano l’economia verde o, per dirla con i conterranei acquisiti del Nostro, la green economy.
E’ successo in un pomeriggio d’ottobre, nella sede di Assindustria a Mantova, per l’annuale assemblea dei giovani industriali. In cattedra, tra un produttore di pannelli truciolari fatti con legno riciclato e un manager che recupera plastica per le sue imbottigliatrici, anche Zerihun Dessalegn, della Fondazione Slow Food per la biodiversità, responsabile dei presìdi della sua terra: l’Etiopia. Anche la favola di Zerihun parla di due alveari. Uno è quello tradizionale per il corno d’Africa (dove il miele, ha spiegato Zerihun, lo si fa da almeno tremila anni, lo si mangia, lo si usa come cicatrizzatore e come portafortuna e lo si trinca pure, sotto forma di una bevanda alcolica detta tej). Un grosso cilindro, che spesso viene appeso appena fuori dalle capanne (i tukul) e che ha una lunga storia, ma parecchi difetti: è impossibile spostarlo per seguire le diverse fioriture, produce poco miele, spesso di qualità non eccelsa, e provoca problemi di convivenza fra gli inquilini dell’alveare e quelli dei tukul. Davanti a quella platea cui non era troppo abituato, Zerihun ha spiegato che anche laggiù, in Etiopia, di colpo è arrivato un nuovo alveare. Ma a portarcelo non è stato Giove, bensì un signore seduto in mezzo a loro che, fra tanti giovani, spiccava per i suoi capelli bianchi: Celso Braglia, volontario della onlus “Modena per gli altri” e apicoltore pure lui. Cinque anni fa, visitando l’Etiopia, Celso osservò quegli alveari e i loro difetti. E capì che poteva dare una mano. Certo non dev’essere stato facile farsi capire in amarico. La sua fortuna fu d’incontrare, nella missione di Shallalà, il signor Sumoro (di cui Celso tiene, orgoglioso, una foto nel taschino). A lui consegnò la prima arnia “moderna”, come quelle in uso da noi, per dimostrare che con quella si potevano produrre 35 chili di miele l’anno, anziché i 12 di prima. E siccome anche in amarico il passaparola funziona alla grande, in tanti hanno voluto fare come Sumoro. Ne è nato un piccolo esperimento di microcredito: i kit per costruire le arnie li fa un falegname di Addis Abeba. Chi lo vuole può scegliere se ripagarlo con due chili di cera d’api, o quattro di miele o pagando 100 birr (meno di 8 euro) in tre o quattro rate. Poi nel progetto sono entrate altre associazioni, è arrivata Slow Food, ci sono state lezioni di apicoltura di italiani in Etiopia e di etiopi in Italia, i mieli dei due presidi Slow Food, quello bianco di Wukro e quello del vulcano di Wenchi, sono approdati a Terra Madre e adesso anche una banca emiliana sembra voler dar sostegno al progetto di microcredito. Insomma, per farla breve, Zerihun ha spiegato che le associazioni di apicoltori sono diventate sei, per un totale di 110 membri. Quelle di Wenchi e Wukro sono già cooperative e altre tre seguiranno presto.
La morale della sua favola, Zerihun l’ha riassunta così: “Vogliamo uscire dalla povertà, ma senza distruggere la natura”.
Però, direte voi, questa favola delle api sembra un po’ il contrario di quella di Mandeville. Qui è il buon cuore a trionfare, non i cattivi pensieri. E, oltretutto, l’ha raccontata un africano, che i contemporanei del buon Bernard avrebbero considerato, ai tempi, un selvaggio da civilizzare, mica un saggio da cui prendere lezioni. Sarà che, checché ne pensi Giambattista Vico, non sempre la storia si ripete alla stessa maniera. Ma ai giovani capitani d’industria che hanno applaudito convinti Zerihun, la cosa non sembrava dispiacere. E a noi men che meno.

Quel che non ci serve per essere felici


Abbiamo da poco finito di festeggiare San Silvestro e il nuovo anno. Ma si potrebbe dire che, per il nostro pianeta, l’anno sia finito ben prima del 31 dicembre. Per l’esattezza, il 21 di agosto. Quel giorno, secondo i calcoli del Global Footprint Network, l’umanità ha esaurito, nel 2010, la biocapacità annuale della Terra, ovvero la capacità del pianeta di rigenerare le risorse che noi consumiamo. Come venga fatto il calcolo, è un po’ complicato da spiegare (i più curiosi possono scoprirlo sul sito http://www.footprintnetwork.org/). Ma cosa comporti è presto detto: se, ad esempio, emettiamo in un anno più anidride carbonica (Co2) di quella che il pianeta è in grado di assorbire, la parte in eccesso resterà nell’atmosfera e, visto che la Co2 è un cosiddetto gas-serra, farà aumentare la temperatura del pianeta. Se tagliamo più alberi di quanti possano ricrescere, ci ritroveremo con meno foreste e se pompiamo troppa acqua, intaccando le falde profonde, finirà che ci ritroveremo a secco. Insomma, per farla breve, è come spendere ogni anno più soldi di quanti se ne incassano: prima o poi si fa bancarotta. E la bancarotta ecologica del pianeta non sarà una buona notizia per chi ci abita sopra.
Come si possa fare per evitarla, è facile da dire: basta spendere (consumare) meno di quello che si incassa (rigenera). E, allora, perché è così difficile da fare? Secondo il Worldwatch Institute, una delle più importanti organizzazioni ambientaliste mondiali, lo è perché, per farlo, dovremmo cambiare la nostra cultura: dal consumismo alla sostenibilità, come recita il sottotitolo dell’edizione 2010 del rapporto “State of the world” dello stesso istituto. Ma cos’è mai il consumismo? Secondo il Worldwatch Institute è “un modello culturale che conduce la gente a trovare significato, soddisfazione e accettazione primariamente attraverso il consumo di beni e servizi”. Quante volte ci siamo detti, o ci hanno detto, che non c’è niente di meglio di un po’ di shopping per tirarci su quando abbiamo il morale sotto i tacchi? Quanti soldi vengono spesi, ogni anno, per spot pubblicitari che ci devono convincere di non poter essere bravi mariti/brave mogli/bimbi felici/gente alla moda/eleganti/sensuali/moderni e, in ultima analisi, felici se non compriamo la tal auto/profumo/giocattolo/vestito/computer e via dicendo? (Qui la risposta la dà lo stesso Worldwatch Institute: per marketing e pubblicità, nel solo 2008, sono stati spesi 643 miliardi di dollari).
Un paio di anni fa era venuto a Mantova, ospite del Festivaletteratura, frei Betto, teologo della liberazione brasiliano e ministro nel primo governo Lula. Aveva raccontato che, durante lo scalo aereo a Parigi, si era avventurato in uno dei tanti meganegozi dell’aeroporto. A una commessa che gli si era avvicinata per chiedere se avesse bisogno di consigli, lui aveva risposto: “No, grazie, stavo solo facendo una passeggiata filosofica: guardavo quante cose ci sono al mondo che non mi servono per essere felice”.
Come buon proposito di inizio anno, forse potremmo ricordarci di frei Betto e dare un’occhiata negli armadi, nei cassetti, in casa alla ricerca di tutte le cose che abbiamo comprato e non ci sono servite per essere più felici (alcune, magari, non le abbiamo mai nemmeno usate). Potremmo farne un elenco scritto, o almeno mentale. E ricordarcelo la prossima volta che ci viene la tentazione di fare un po’ di shopping anti-depressivo. Il pianeta, di sicuro, ringrazierebbe. E quello sì, che dovrebbe farci felici.