C’era una volta un filosofo e poeta satirico, olandese di nascita e britannico d’adozione, che di nome faceva Bernard de Mandeville. Se qualcuno ancora si ricorda di lui, è in ragione del titolo, e ancor più del sottotitolo, di un poemetto che scrisse più o meno tre secoli fa, nei primi anni del Settecento: La favola delle api, ovvero vizi privati e pubbliche virtù. Raccontavano, quei versi, di un alveare prosperoso sì, ma così brulicante d’ineguaglianze, sopraffazioni, sotterfugi e cupidigie (di privati vizi, insomma), da suscitare, in alcune delle api, un pungente desiderio di giustizia e probità. Giove in persona, il deus ex machina di quella favola, si piccò d’esaudirlo, quel desiderio. Ma più per dispetto che per magnanimità. Da quando, infatti, equità e rettitudine vi trovarono albergo, l’alveare vide piano piano volar via tutta la sua prosperità.
La morale della favola era che la nascente società dei capitali e dei capitani d’industria (ché quello rappresentava l’alveare) poteva fondarsi soltanto sul lusso, lo sperpero e la brama di ricchezza. Per dirla con le parole di Mandeville, la “facile contentatura” è “la peste dell’industria”, mentre “il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtù da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa”.
Tra i contemporanei del nostro Bernard, c’era un altro filosofo di gran vaglia: Giambattista Vico. E, forse, a Mandeville sarebbe tornata alla mente la vichiana teoria dei corsi e ricorsi storici se avesse saputo che, trecent’anni dopo la sua, un gruppo di rampanti capitani d’industria si sarebbe fatta raccontare un’altra favola delle api per imparare qualcosa di una diversa rivoluzione industriale. Quella che chiamano l’economia verde o, per dirla con i conterranei acquisiti del Nostro, la green economy.
E’ successo in un pomeriggio d’ottobre, nella sede di Assindustria a Mantova, per l’annuale assemblea dei giovani industriali. In cattedra, tra un produttore di pannelli truciolari fatti con legno riciclato e un manager che recupera plastica per le sue imbottigliatrici, anche Zerihun Dessalegn, della Fondazione Slow Food per la biodiversità, responsabile dei presìdi della sua terra: l’Etiopia. Anche la favola di Zerihun parla di due alveari. Uno è quello tradizionale per il corno d’Africa (dove il miele, ha spiegato Zerihun, lo si fa da almeno tremila anni, lo si mangia, lo si usa come cicatrizzatore e come portafortuna e lo si trinca pure, sotto forma di una bevanda alcolica detta tej). Un grosso cilindro, che spesso viene appeso appena fuori dalle capanne (i tukul) e che ha una lunga storia, ma parecchi difetti: è impossibile spostarlo per seguire le diverse fioriture, produce poco miele, spesso di qualità non eccelsa, e provoca problemi di convivenza fra gli inquilini dell’alveare e quelli dei tukul. Davanti a quella platea cui non era troppo abituato, Zerihun ha spiegato che anche laggiù, in Etiopia, di colpo è arrivato un nuovo alveare. Ma a portarcelo non è stato Giove, bensì un signore seduto in mezzo a loro che, fra tanti giovani, spiccava per i suoi capelli bianchi: Celso Braglia, volontario della onlus “Modena per gli altri” e apicoltore pure lui. Cinque anni fa, visitando l’Etiopia, Celso osservò quegli alveari e i loro difetti. E capì che poteva dare una mano. Certo non dev’essere stato facile farsi capire in amarico. La sua fortuna fu d’incontrare, nella missione di Shallalà, il signor Sumoro (di cui Celso tiene, orgoglioso, una foto nel taschino). A lui consegnò la prima arnia “moderna”, come quelle in uso da noi, per dimostrare che con quella si potevano produrre 35 chili di miele l’anno, anziché i 12 di prima. E siccome anche in amarico il passaparola funziona alla grande, in tanti hanno voluto fare come Sumoro. Ne è nato un piccolo esperimento di microcredito: i kit per costruire le arnie li fa un falegname di Addis Abeba. Chi lo vuole può scegliere se ripagarlo con due chili di cera d’api, o quattro di miele o pagando 100 birr (meno di 8 euro) in tre o quattro rate. Poi nel progetto sono entrate altre associazioni, è arrivata Slow Food, ci sono state lezioni di apicoltura di italiani in Etiopia e di etiopi in Italia, i mieli dei due presidi Slow Food, quello bianco di Wukro e quello del vulcano di Wenchi, sono approdati a Terra Madre e adesso anche una banca emiliana sembra voler dar sostegno al progetto di microcredito. Insomma, per farla breve, Zerihun ha spiegato che le associazioni di apicoltori sono diventate sei, per un totale di 110 membri. Quelle di Wenchi e Wukro sono già cooperative e altre tre seguiranno presto.
La morale della sua favola, Zerihun l’ha riassunta così: “Vogliamo uscire dalla povertà, ma senza distruggere la natura”.
Però, direte voi, questa favola delle api sembra un po’ il contrario di quella di Mandeville. Qui è il buon cuore a trionfare, non i cattivi pensieri. E, oltretutto, l’ha raccontata un africano, che i contemporanei del buon Bernard avrebbero considerato, ai tempi, un selvaggio da civilizzare, mica un saggio da cui prendere lezioni. Sarà che, checché ne pensi Giambattista Vico, non sempre la storia si ripete alla stessa maniera. Ma ai giovani capitani d’industria che hanno applaudito convinti Zerihun, la cosa non sembrava dispiacere. E a noi men che meno.
La morale della favola era che la nascente società dei capitali e dei capitani d’industria (ché quello rappresentava l’alveare) poteva fondarsi soltanto sul lusso, lo sperpero e la brama di ricchezza. Per dirla con le parole di Mandeville, la “facile contentatura” è “la peste dell’industria”, mentre “il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtù da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa”.
Tra i contemporanei del nostro Bernard, c’era un altro filosofo di gran vaglia: Giambattista Vico. E, forse, a Mandeville sarebbe tornata alla mente la vichiana teoria dei corsi e ricorsi storici se avesse saputo che, trecent’anni dopo la sua, un gruppo di rampanti capitani d’industria si sarebbe fatta raccontare un’altra favola delle api per imparare qualcosa di una diversa rivoluzione industriale. Quella che chiamano l’economia verde o, per dirla con i conterranei acquisiti del Nostro, la green economy.
E’ successo in un pomeriggio d’ottobre, nella sede di Assindustria a Mantova, per l’annuale assemblea dei giovani industriali. In cattedra, tra un produttore di pannelli truciolari fatti con legno riciclato e un manager che recupera plastica per le sue imbottigliatrici, anche Zerihun Dessalegn, della Fondazione Slow Food per la biodiversità, responsabile dei presìdi della sua terra: l’Etiopia. Anche la favola di Zerihun parla di due alveari. Uno è quello tradizionale per il corno d’Africa (dove il miele, ha spiegato Zerihun, lo si fa da almeno tremila anni, lo si mangia, lo si usa come cicatrizzatore e come portafortuna e lo si trinca pure, sotto forma di una bevanda alcolica detta tej). Un grosso cilindro, che spesso viene appeso appena fuori dalle capanne (i tukul) e che ha una lunga storia, ma parecchi difetti: è impossibile spostarlo per seguire le diverse fioriture, produce poco miele, spesso di qualità non eccelsa, e provoca problemi di convivenza fra gli inquilini dell’alveare e quelli dei tukul. Davanti a quella platea cui non era troppo abituato, Zerihun ha spiegato che anche laggiù, in Etiopia, di colpo è arrivato un nuovo alveare. Ma a portarcelo non è stato Giove, bensì un signore seduto in mezzo a loro che, fra tanti giovani, spiccava per i suoi capelli bianchi: Celso Braglia, volontario della onlus “Modena per gli altri” e apicoltore pure lui. Cinque anni fa, visitando l’Etiopia, Celso osservò quegli alveari e i loro difetti. E capì che poteva dare una mano. Certo non dev’essere stato facile farsi capire in amarico. La sua fortuna fu d’incontrare, nella missione di Shallalà, il signor Sumoro (di cui Celso tiene, orgoglioso, una foto nel taschino). A lui consegnò la prima arnia “moderna”, come quelle in uso da noi, per dimostrare che con quella si potevano produrre 35 chili di miele l’anno, anziché i 12 di prima. E siccome anche in amarico il passaparola funziona alla grande, in tanti hanno voluto fare come Sumoro. Ne è nato un piccolo esperimento di microcredito: i kit per costruire le arnie li fa un falegname di Addis Abeba. Chi lo vuole può scegliere se ripagarlo con due chili di cera d’api, o quattro di miele o pagando 100 birr (meno di 8 euro) in tre o quattro rate. Poi nel progetto sono entrate altre associazioni, è arrivata Slow Food, ci sono state lezioni di apicoltura di italiani in Etiopia e di etiopi in Italia, i mieli dei due presidi Slow Food, quello bianco di Wukro e quello del vulcano di Wenchi, sono approdati a Terra Madre e adesso anche una banca emiliana sembra voler dar sostegno al progetto di microcredito. Insomma, per farla breve, Zerihun ha spiegato che le associazioni di apicoltori sono diventate sei, per un totale di 110 membri. Quelle di Wenchi e Wukro sono già cooperative e altre tre seguiranno presto.
La morale della sua favola, Zerihun l’ha riassunta così: “Vogliamo uscire dalla povertà, ma senza distruggere la natura”.
Però, direte voi, questa favola delle api sembra un po’ il contrario di quella di Mandeville. Qui è il buon cuore a trionfare, non i cattivi pensieri. E, oltretutto, l’ha raccontata un africano, che i contemporanei del buon Bernard avrebbero considerato, ai tempi, un selvaggio da civilizzare, mica un saggio da cui prendere lezioni. Sarà che, checché ne pensi Giambattista Vico, non sempre la storia si ripete alla stessa maniera. Ma ai giovani capitani d’industria che hanno applaudito convinti Zerihun, la cosa non sembrava dispiacere. E a noi men che meno.
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