Abbiamo da poco finito di festeggiare San Silvestro e il nuovo anno. Ma si potrebbe dire che, per il nostro pianeta, l’anno sia finito ben prima del 31 dicembre. Per l’esattezza, il 21 di agosto. Quel giorno, secondo i calcoli del Global Footprint Network, l’umanità ha esaurito, nel 2010, la biocapacità annuale della Terra, ovvero la capacità del pianeta di rigenerare le risorse che noi consumiamo. Come venga fatto il calcolo, è un po’ complicato da spiegare (i più curiosi possono scoprirlo sul sito http://www.footprintnetwork.org/). Ma cosa comporti è presto detto: se, ad esempio, emettiamo in un anno più anidride carbonica (Co2) di quella che il pianeta è in grado di assorbire, la parte in eccesso resterà nell’atmosfera e, visto che la Co2 è un cosiddetto gas-serra, farà aumentare la temperatura del pianeta. Se tagliamo più alberi di quanti possano ricrescere, ci ritroveremo con meno foreste e se pompiamo troppa acqua, intaccando le falde profonde, finirà che ci ritroveremo a secco. Insomma, per farla breve, è come spendere ogni anno più soldi di quanti se ne incassano: prima o poi si fa bancarotta. E la bancarotta ecologica del pianeta non sarà una buona notizia per chi ci abita sopra.
Come si possa fare per evitarla, è facile da dire: basta spendere (consumare) meno di quello che si incassa (rigenera). E, allora, perché è così difficile da fare? Secondo il Worldwatch Institute, una delle più importanti organizzazioni ambientaliste mondiali, lo è perché, per farlo, dovremmo cambiare la nostra cultura: dal consumismo alla sostenibilità, come recita il sottotitolo dell’edizione 2010 del rapporto “State of the world” dello stesso istituto. Ma cos’è mai il consumismo? Secondo il Worldwatch Institute è “un modello culturale che conduce la gente a trovare significato, soddisfazione e accettazione primariamente attraverso il consumo di beni e servizi”. Quante volte ci siamo detti, o ci hanno detto, che non c’è niente di meglio di un po’ di shopping per tirarci su quando abbiamo il morale sotto i tacchi? Quanti soldi vengono spesi, ogni anno, per spot pubblicitari che ci devono convincere di non poter essere bravi mariti/brave mogli/bimbi felici/gente alla moda/eleganti/sensuali/moderni e, in ultima analisi, felici se non compriamo la tal auto/profumo/giocattolo/vestito/computer e via dicendo? (Qui la risposta la dà lo stesso Worldwatch Institute: per marketing e pubblicità, nel solo 2008, sono stati spesi 643 miliardi di dollari).
Un paio di anni fa era venuto a Mantova, ospite del Festivaletteratura, frei Betto, teologo della liberazione brasiliano e ministro nel primo governo Lula. Aveva raccontato che, durante lo scalo aereo a Parigi, si era avventurato in uno dei tanti meganegozi dell’aeroporto. A una commessa che gli si era avvicinata per chiedere se avesse bisogno di consigli, lui aveva risposto: “No, grazie, stavo solo facendo una passeggiata filosofica: guardavo quante cose ci sono al mondo che non mi servono per essere felice”.
Come buon proposito di inizio anno, forse potremmo ricordarci di frei Betto e dare un’occhiata negli armadi, nei cassetti, in casa alla ricerca di tutte le cose che abbiamo comprato e non ci sono servite per essere più felici (alcune, magari, non le abbiamo mai nemmeno usate). Potremmo farne un elenco scritto, o almeno mentale. E ricordarcelo la prossima volta che ci viene la tentazione di fare un po’ di shopping anti-depressivo. Il pianeta, di sicuro, ringrazierebbe. E quello sì, che dovrebbe farci felici.
Come si possa fare per evitarla, è facile da dire: basta spendere (consumare) meno di quello che si incassa (rigenera). E, allora, perché è così difficile da fare? Secondo il Worldwatch Institute, una delle più importanti organizzazioni ambientaliste mondiali, lo è perché, per farlo, dovremmo cambiare la nostra cultura: dal consumismo alla sostenibilità, come recita il sottotitolo dell’edizione 2010 del rapporto “State of the world” dello stesso istituto. Ma cos’è mai il consumismo? Secondo il Worldwatch Institute è “un modello culturale che conduce la gente a trovare significato, soddisfazione e accettazione primariamente attraverso il consumo di beni e servizi”. Quante volte ci siamo detti, o ci hanno detto, che non c’è niente di meglio di un po’ di shopping per tirarci su quando abbiamo il morale sotto i tacchi? Quanti soldi vengono spesi, ogni anno, per spot pubblicitari che ci devono convincere di non poter essere bravi mariti/brave mogli/bimbi felici/gente alla moda/eleganti/sensuali/moderni e, in ultima analisi, felici se non compriamo la tal auto/profumo/giocattolo/vestito/computer e via dicendo? (Qui la risposta la dà lo stesso Worldwatch Institute: per marketing e pubblicità, nel solo 2008, sono stati spesi 643 miliardi di dollari).
Un paio di anni fa era venuto a Mantova, ospite del Festivaletteratura, frei Betto, teologo della liberazione brasiliano e ministro nel primo governo Lula. Aveva raccontato che, durante lo scalo aereo a Parigi, si era avventurato in uno dei tanti meganegozi dell’aeroporto. A una commessa che gli si era avvicinata per chiedere se avesse bisogno di consigli, lui aveva risposto: “No, grazie, stavo solo facendo una passeggiata filosofica: guardavo quante cose ci sono al mondo che non mi servono per essere felice”.
Come buon proposito di inizio anno, forse potremmo ricordarci di frei Betto e dare un’occhiata negli armadi, nei cassetti, in casa alla ricerca di tutte le cose che abbiamo comprato e non ci sono servite per essere più felici (alcune, magari, non le abbiamo mai nemmeno usate). Potremmo farne un elenco scritto, o almeno mentale. E ricordarcelo la prossima volta che ci viene la tentazione di fare un po’ di shopping anti-depressivo. Il pianeta, di sicuro, ringrazierebbe. E quello sì, che dovrebbe farci felici.
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