giovedì 21 aprile 2011




SQUALI E SQUALLORI




Sembra facile, distinguere i buoni dai cattivi. Se vedeste un tizio che fa il bagno e la pinna di uno squalo che emerge dalle onde, avreste dubbi su chi sia il buono e chi il cattivo della situazione? Beh, forse dovreste. Perché, di questi tempi, ad essere in pericolo è il possessore della pinna. E proprio per colpa di noi umani.
Uno dei motivi sono, giustappunto, le pinne. Dopo che Mao l’aveva messa al bando bollandola come una “raffinatezza borghese”, in Cina è tornata a spopolare la zuppa di pinne di squalo. In particolare per matrimoni, ricevimenti e altre celebrazioni. Si crede sia afrodisiaca e un segno di ricchezza. E siccome i cinesi sono più di un miliardo, i risultati sulla popolazione mondiale di squali non si sono fatti attendere. Nella Red List della Iucn (che indica tutte le specie a rischio di estinzione) sono oggi considerati in pericolo il 25% degli squali che vivono nelle acque profonde, il 35% di quelli delle acque più superficiali e più di metà di quelli oceanici.
Siccome la carne di squalo sui mercati internazionali si vende da 1 a 7 euro al chilo, mentre le pinne possono andare da 90 a 300 e, una volta fatte seccare al sole, sono oltretutto molto più facili da conservare e immagazzinare, è sempre più diffuso il cosiddetto “shark finning”. Una pratica barbara (se siete forti di stomaco, potete vedervi qualche filmato su YouTube), che consiste nell’issare a bordo gli squali, tagliar loro le pinne e ributtarli in mare, spesso ancora vivi, per lasciarli morire. Così si possono, oltretutto, aggirare i limiti sulle quote di pescato.
Per avere un’idea della vastità del fenomeno, secondo il gruppo ambientalista Oceana la sola Hong Kong importa dieci milioni di chili di pinne di squalo ogni anno, da 87 paesi diversi, in particolare Spagna, Singapore e Taiwan.
E visto che gli squali, essendo predatori, stanno in cima alla catena alimentare e hanno un importante ruolo di regolazione delle specie marine, la loro diminuzione sta già provocando sconquassi. Gli oceani ormai pullulano di sardine, aringhe e acciughe, il cui numero è più che raddoppiato negli ultimi 100 anni, e il motivo è da ricondurre alla scomparsa dei grossi predatori dei mari come, appunto, squali, tonni e merluzzi, vittime della pesca incontrollata. Uno scenario che preoccupa non poco gli scienziati, visto che questi pesci si nutrono di plancton e che la loro proliferazione potrebbe avere conseguenze catastrofiche sulla catena alimentare marina, aumentando il rischio di una sovrapproduzione di alghe, che impediscono agli oceani di “respirare”.
Tornando al nostro bagnante e al nostro squalo dell’inizio, la rivista The Ecologist ricordava di recente che almeno 100 milioni di squali vengano uccisi ogni anno, mentre negli ultimi due anni si sarebbero contati circa 80 attacchi di squali contro l’uomo, solo 3 dei quali mortali. Il che non vuol certo dire non provare compassione per le vittime umane. Semmai, provarne un po’ di più anche per la controparte. Del resto, Peter Benchley, autore del libro “Jaws”, da cui Steven Spielberg ha tratto il film “Lo squalo”, quattro anni fa, poco prima di morire, parlando da membro del National Council of Environmental Defense, aveva ammesso: “In una nuova versione di Jaws, lo squalo non sarebbe il cattivo, ma la vittima. Lo sarebbe perché, nel mondo, gli squali sono molto più oppressi che oppressori”.


P.S.: se pensate che sia tutta e solo colpa dei cinesi, sappiate che, a livello mondiale il contributo dei prodotti ittici alla nostra dieta ha raggiunto l’ammontare record di quasi 17 kg a persona, fornendo il 15 per cento dell'apporto medio di proteine animali a oltre tre miliardi di persone. Secondo l’ultimo rapporto Fao su Lo stato della pesca e dell'acquacoltura nel mondo (Sofia 2010), il consumo di pesce arrivato al suo massimo storico fa sì che la percentuale complessiva di stock ittici oceanici sfruttati in eccesso, esauriti o in fase di ricostituzione si attesti alla preoccupante soglia del 32%, leggermente più alta rispetto al 2006, senza quindi registrare alcun miglioramento.

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