lunedì 6 giugno 2011

Il festival del letame



Da 24 al 26 giugno, al caseificio Santa Rita di Serramazzoni (Mo), si terrà il 3° Festival del letame. Per info e programma: http://www.caseificiosantarita.com/.



Io ci sono stato l'anno scorso. Quello che segue è una specie di reportage, che spero vi faccia venir voglia di andarci






Verrebbe da citare De André: “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”. Ma forse val la pena di scavare un poco più indietro nel tempo. Fino a un aureo libretto del 1869, Catechismo agricolo ad uso dei contadini, opera di don Giovanni Rizzo, parroco di Salboro, nel Padovano. Uno che predicava come “coltivare la terra senza violentarla”. “Lo scrigno del contadino – scriveva convinto don Giovanni - è il letamaio”.
Possibile? Davvero “il secreto dell’agricoltura” starebbe tutto nell’aver letame a buon prezzo, come insegnava il parroco padovano? Non è invece un guaio, un impiccio, un fardello di cui, fra direttiva nitrati e costi di smaltimento, è dura sbarazzarsi, tutta questa montagna di sterco, cacca o deiezioni, come più vi aggrada chiamarla? Il letame puzza, il letame inquina, il letame ingombra (e nemmeno si sa se porti fortuna pestarlo). Non è forse sempre stato così?
Beh, non proprio. “Ai tempi di don Rizzo, e fino a qualche anno fa anche nelle scuole di agraria, lo chiamavano “il burro nero”, tanto era prezioso” – s’infervora Graziano Poggioli. Che, tempo addietro, quando era assessore all’agricoltura della Provincia di Modena, ebbe l’ardire di dedicare al letame addirittura un festival. Le prime due edizioni le hanno fatte a Lama Mocogno. Poi si sono trasferiti qui, al caseificio Santa Rita di Pompeano di Serramazzoni, sempre nel Modenese, dove siamo venuti a ficcare il naso. Nel frattempo, grazie a Poggioli e a Stefano Fogacci, è nata anche la “Comunità del letame”, che ha debuttato a Terra Madre nel 2008.
“Il festival del letame – ci racconta Poggioli, tra un gnocco fritto e un borlengo spennellato di lardo e Parmigiano Reggiano – è nato come provocazione. Per far riprendere coscienza, a contadini e allevatori, dell’importanza che ha il letame. E’ il cibo della terra, come abbiamo scritto sui volantini e i cartelloni qui al festival”.
Ma se il letame è il segreto dell’agricoltura, qual è il segreto di un buon letame? Per scoprirlo, ci tocca lasciare tavola, gnocco fritto e borlengo e seguire il buon Graziano po’ più in là, nel prato. Davanti ad alcuni tazebao colorati, con slogan che di sicuro anche il parroco-agronomo di Salboro avrebbe benedetto (“Curare la terra per guarire gli uomini”; “La terra è viva e ha bisogno di buon cibo”) ci sono due tavole con i campioni raccolti per la “disfida del letame”. Perché, qui al festival, ogni anno viene premiato chi produce quello migliore. Mister Letame, più o meno. Stavolta la sfida è a tredici: le nove aziende bio che conferiscono il latte al caseificio Santa Rita, più qualche altra della zona.
Ci avviciniamo guardinghi, temendo d’essere stesi da una zaffata pestilenziale. Ma Poggioli ci rassicura: “Il letame puzza solo quando è fresco, per via dell’ammoniaca. Quando è bello maturo, invece, profuma di bosco e sottobosco. E non sporca nemmeno le mani”.
Per farla breve, abbiamo dovuto fare i San Tommaso: annusare e tastare con mano. “Ma quello buono si vede già ad occhio – giura Graziano -. Dev’essere bello scuro e, se ha un bel po’ di lombrichi dentro, tanto meglio”. Quanto al tatto, la parola magica è “colloidale”: “Quando lo si stringe nel pugno, non deve sbriciolarsi, deve invece formare una palla compatta, quasi gommosa”.
La prova del nove, però, è quella dell’acqua. In testa ad uno dei due tavoli, ci sono tre caraffe. Nelle prime due, il liquido è ormai torbido. Nella terza no, anche se si nota qualcosa di scuro sul fondo. “Ho fatto tre palline di letami diversi e le ho messe a mollo per qualche ora – spiega il nostro letamologo -. Più l’acqua rimane limpida, migliore è il letame. Vuol dire infatti che, nel campo, resterà a lungo nei primi 30-40 centimetri di terreno, invece di finire nelle falde profonde alla prima pioggia”.
Il campione migliore dei tre (che sarà anche il vincitore finale 2010) è quello preso dal “cumulo biodinamico” messo in bella mostra di fianco alle due tavole. La preparazione era iniziata l’anno prima, in occasione del festival 2009, con il letame di tre aziende socie del caseificio Santa Rita (Fratelli Poggioli, Elide Giberti e Bio San Carlo). Su un cartello piantato nel mucchio c’è anche la lista degli ingredienti: letame, paglia e, sorpresa, achillea, quercia, camomilla, tarassaco, ortica e valeriana. “Sono preparati biodinamici dinamizzati, un po’ come nell’omeopatia – spiega Poggioli -. Vengono spruzzati sul cumulo e servono per migliorare il processo di fermentazione”.
Ma quanto ci vuole, per avere un letame così? “La cosa più importante è rivoltarlo spesso, sennò si forma una crosta all’esterno, mentre dentro si formano le muffe, per la troppa umidità. Se lo si gira spesso, possono bastare nove mesi. Altrimenti almeno un anno”.
Magari, azzardiamo, è per quello che nessuno lo fa più. Non è una faticaccia? “In Australia e Nuova Zelanda – ribatte Poggioli – le macchine per rivoltare il letame e fare i cumuli biodinamici le hanno già inventate. Non è tanto un problema di fatica, è un problema culturale. Il letame, ormai, da noi è criminalizzato. Per gli agricoltori, il problema non è di utilizzarlo, ma di smaltirlo, perché è considerato un rifiuto, non una risorsa. E chi contadino non è, quando vede un cumulo di letame quasi si scandalizza. Ma, invece di arrabbiarsi, dovrebbe esserne contento: vuol dire che lì ci sono ancora contadini capaci di fare il loro mestiere”.
Ma non saranno più comodi i fertilizzanti? “Il problema è che, a forza di chimica, i suoli perdono in fertilità. Il terreno diventa solo un substrato fisico per il concime chimico. Per quanto, ancora, potremo andare avanti su questa strada, a preoccuparci solo della quantità per ettaro e non della qualità? Dobbiamo riappropriarci delle tecniche agronomiche. Purtroppo, con la specializzazione esasperata è saltato anche il corretto rapporto fra terreni e capi allevati: in molte zone ci sono troppi capi e pochi terreni, in altre il contrario”.
Qualche segnale di speranza, però, c’è. “Un produttore di Barolo – racconta Poggioli – ha convinto un gruppo di giovani agricoltori a metter su un’aziendina per fornirgli il letame di cui ha bisogno per le vigne”.
E, anche se potrebbe non sembrare la materia più solida per costruirci sopra un’intera filiera, quelli della Comunità del letame ci stanno provando. A pochi passi dal cumulo biodinamico, i casari del Santa Rita stanno tirando fuori da una caldera in rame una forma di Parmigiano da stagionare. “E’ fatta di solo latte di Bianca Modenese – spiega Poggioli – la razza che, assieme a Slow Food, stiamo cercando di salvare. E’ dura, perché per ora siamo sotto i mille capi e dovremmo arrivare ad almeno 3-4 mila. Con il latte delle Bianche, produciamo solo tre forme al giorno, una qui al Santa Rita e due al caseificio Rosola di Zocca. Ma teniamo duro, speriamo di riuscire a fare come i nostri vicini, che la Rossa Reggiana, l’altra razza storica del Parmigiano, ormai l’hanno salvata, anche grazie al formaggio”.
Appena ci fanno assaggiare una scaglia del loro stravecchio di 90 mesi, chiediamo commossi se ci si possa iscrivere a un fan club della Bianca. Sarà stato il Parmigiano, o il lambrusco Grasparossa biologico: ma, mentre salutiamo Graziano e il festival, ci ronza in testa non De André, ma Sergio Endrigo: “Per fare un albero, ci vuole il seme, per fare il seme, ci vuole il frutto, per fare il frutto ci vuole un fiore”. Che cosa ci voglia per fare un fiore, ormai l’avrete capito.

2 commenti:

  1. Poggioli graziano e' Una gran brutta persona, cattivo d'animo e inaffidabile insieme Al suo compagno badidi biorgio e a qualche altra donzella invidiosa e malevola.

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