giovedì 11 febbraio 2010

Il vero costo della costata


E, dopo il pesce, ecco qualcosa che avevo scritto sul consumo di carne, sempre per la rivista Slowfood. Spero che la lettura non risulti troppo indigesta...

“Molta gente va in palestra il lunedì. Con i “lunedì senza carne”, sarà un po’ come andare in palestra, ma con il vantaggio aggiuntivo di proteggere il pianeta”. Quando, a fine giugno 2008, l’ex beatle Paul McCartney lanciò, dalle colonne del magazine “The Grocer”, la proposta del “lunedì senza carne”, i più avranno scrollato le spalle, pensando fosse solo la stravaganza di una popstar vegetariana: che c’entrerà mai una bistecca con la salvezza del pianeta?
Quando però, due mesi e mezzo più tardi, la stessa proposta di un giorno alla settimana meat-free venne fatta da Rajendra Pachauri, a qualcuno sarà venuto il sospetto che la bistecca qualcosa c’entrasse davvero. Perché Pachauri è il presidente dell’Ipcc (Intergovernmental panel on climate change), l’organismo Onu che si occupa di cambiamenti climatici, premiato nel 2007 con il Nobel per la pace. Uno, insomma, che di minacce ambientali se ne intende.
Per spiegare quale fosse il costo ecologico della costata, Pachauri ha servito ai 400 invitati al Savoy Place di Londra per la Peter Roberts memorial lecture (promossa dal gruppo Compassion in World Farming)[1], una serie di dati piuttosto indigesti, tratti in gran parte da un recente rapporto della Fao, inquietante già dal titolo: Livestock’s long shadow[2] (l’ombra lunga dell’allevamento).

L’ombra lunga dell’allevamento
Per capire quanto sia lunga tale ombra sul futuro del pianeta, ecco alcuni dati del rapporto Fao. L’allevamento produce l’80% delle emissioni di gas serra di tutto il comparto agricolo e il 18% del totale complessivo mondiale di emissioni. Più, sorpresa, di quante ne produca il settore trasporti. Ad essere più precisi, il 9% delle emissioni totali di anidride carbonica (soprattutto a causa delle foreste bruciate per far posto ai pascoli), il 37% delle emissioni totali di metano (un gas serra 23 volte più potente della CO2, rilasciato, in questo caso, dal “tubo di scappamento” dei ruminanti) e, causa soprattutto il letame, il 65% di quelle di ossido d’azoto (296 volte più potente della CO2). In aggiunta, all’allevamento si deve anche il 64% delle emissioni di ammoniaca, che contribuisce in modo significativo alle piogge acide e all’acidificazione degli ecosistemi.
Ma l’ombra lunga dell’allevamento si estende anche altrove. Ad esso, dice la Fao, è riconducibile l’8 per cento dell’uso mondiale di acqua potabile e buona parte del suo inquinamento. “Statistiche mondiali non sono disponibili – fa notare il rapporto – ma negli Stati Uniti l’allevamento si stima sia responsabile del 55% dell’erosione dei suoli e dei sedimenti, del 37% dell’uso totale di pesticidi, del 50% dell’uso di antibiotici e di un terzo del carico di azoto e fosforo nelle fonti di acqua potabile”.
Magari vi si sta già guastando l’appetito. Ma non è finita. Sempre secondo il rapporto Fao, 3 miliardi e 433 milioni di ettari (il 26% dell’intera superficie terrestre libera dai ghiacci) sono dedicati al pascolo. E circa il 20 per cento di tali terreni (con punte del 73% nelle aree più aride) sono, in misura maggiore o minore, degradati.
Deforestazione, erosione dei suoli, inquinamento delle acque non possono che avere, a loro volta, un impatto sulla perdita di biodiversità. E, al riguardo, la Fao ricorda che, secondo la Iucn (World Conservation Union), autrice della Red List delle specie minacciate, circa il 10 per cento di queste ultime soffrono di perdita dell’habitat a causa dell’allevamento.
E queste sono le medie globali. A livello locale, le cose possono andare anche peggio. L’acqua potabile per dissetare le mandrie, ad esempio, a livello mondiale pesa per meno dell’1 per cento dell’uso totale. Ma in Botswana, ad esempio, la percentuale sale al 23 per cento. E se il contributo dell’allevamento alla produzione di gas serra è, a livello globale, del 18 per cento, in Brasile ammonta a ben il 60 per cento del totale nazionale.
E questo potrebbe essere solo l’antipasto. Perché altri milioni di commensali, soprattutto nei grandi giganti asiatici in crescita (Cina e India), stanno per aggiungersi al banchetto. “La produzione globale di carne – si legge ancora nel rapporto Fao – è destinata a più che raddoppiare, da 229 milioni di tonnellate nel 1999/2001 a 465 milioni di tonnellate nel 2050, e quella di latte da 580 a 1043 milioni di tonnellate”. In assenza di correttivi, aggiunge il rapporto “se la produzione raddoppia, anche il danno ambientale raddoppierà”.



I polli di Trilussa
Certo, mai come in questo caso, vale il detto di Trilussa: se una persona mangia due polli e uno nessuno, per la statistica è come se ne avessero mangiato uno a testa. Il problema del consumo di carne cambia a seconda della parte del mondo da cui lo si guarda. L’allevamento, ricorda la Fao, rappresenta solo l’1,4% del Pil mondiale (anno 2005). “Ma – aggiunge il rapporto – in termini di mezzi di sostentamento, introiti e impiego è molto più importante di quanto suggerirebbe il suo modesto contributo all’economia mondiale”. Ad esempio, esso fornisce un supporto vitale a circa 987 milioni di poveri che vivono nelle aree rurali (pari al 36 per cento di tutti quelli che vivono con meno di due dollari al giorno). E, come ha rivelato uno studio condotto in Kenya e pubblicato nel 2003, “i bambini hanno dimostrato di trarre grandi benefici, in termini di salute sia fisica che mentale, da un modesto aumento di latte, carne o uova nella loro dieta”. Per contro, i prodotti di origine animale danno, come noto, il loro contributo ai problemi di salute del miliardo di persone adulte sovrappeso (e ancora più a quelli dei 300 milioni di obesi mondiali), sempre più spesso colpite da diabete, malattie cardiovascolari e vari tipi di tumori.
Tutto ciò non stupirebbe peraltro la buonanima di Trilussa, visto che, sempre secondo la Fao, un indiano mangia in media solo 5 chili di carne l’anno, mentre uno statunitense 123 (dati 2003).

Bocconi indigesti
A questo punto, dovrebbe essere chiaro per chi, fra ricchi e poveri, suona la campana dell’astinenza dalla carne. Ma il giorno senza carne proposto da McCartney e Pachauri (e si potrebbe aggiungere l’oncologo ed ex ministro Umberto Veronesi, che di giorni senza carne ne propone due alla settimana[3]), servirebbe davvero a qualcosa? Il presidente dell’Ipcc, nella citata conferenza, si è dilettato a fare qualche esempio. Gustoso. Per una cena a base di riso (226 grammi), cavolfiori (113,4 grammi), melanzane e broccoli si emettono in media gas serra pari a 181 grammi di CO2. Una bistecca di manzo da 170 grammi ne fa emettere 25 volte tanto: oltre 4 chili e mezzo. Se preferite, per produrre un chilo di carne di manzo si emettono gas serra equivalenti a 36,4 chili di CO2 (pari a quelli che un’auto di media cilindrata emette in 250 chilometri) e si consuma altrettanta energia che quella di una lampadina da 100 watt accesa per 20 giorni.
Non va meglio se fate il conto in litri d’acqua: per produrre un chilo di carne di manzo ne servono 15.500 litri. Per un chilo di mais ne bastano 900, per uno di riso 3 mila, per un chilo di pollo 3.900 e per uno di maiale 4.900. Tirando le somme, ha sintetizzato Pachauri, “con un ettaro coltivato per produrre verdure, frutta, cereali, si possono sfamare fino a 30 persone. Se lo stesso ettaro viene utilizzato per produrre uova, formaggio e carne, si sfamano al massimo da 5 a 10 persone”. E, in settant’anni di vita, un vegano (che oltre alla carne rifiuta anche pesce, uova e formaggio) fa risparmiare al nostro inquinatissimo pianeta circa 100 tonnellate di CO2 equivalente.
Volendo, si può vedere la faccenda anche in modo diverso. Tornando al parallelo con l’inquinamento causati da auto, camion e altri mezzi di trasporto. Secondo uno studio americano[4], passare da una dieta “carnivora” a una vegetariana equivarrebbe a passare dalla guida di un Suv a quella di una Toyota Prius (l’ormai celebre auto ibrida benzina-elettricità).


Il buon esempio
Come per le emissioni di gas serra legate a industrie e trasporti, anche per quelle legate al consumo di carne spetterebbe al ricco Occidente dare il buon esempio. E qualche rinuncia non dovrebbe essere difficile se, come ha calcolato Caroline Davies dell’Observer, un inglese, nell’arco della sua vita, mangia in media l’equivalente di 8 manzi, 36 pecore, 36 maiali e 550 tra polli, galline e affini.
Non ci sono invece molte speranze di evitare che i popoli in via di sviluppo continueranno a fare il possibile per assicurarsi preziose proteine di origine animale. Né ci sarebbe da augurarselo, se si pensa che, ad esempio, come ricorda la Fao, un ricerca di lungo periodo condotta in Kenya ha dimostrato che “soprattutto i bambini hanno dimostrato di beneficiare grandemente, in termini di salute sia fisica che mentale, quando modeste quote di latte, carne o uova sono aggiunti alla loro dieta”. Difficile, quindi, non condividere quanto si legge nel rapporto Fao poche righe più avanti: “Si potrebbe ben argomentare che il danno ambientale dell’allevamento potrebbe essere significativamente ridotto diminuendo l’eccessivo consumo di prodotti dell’allevamento tra i popoli ricchi”. Altrettanto condivisibili le raccomandazioni Fao a “internalizzare” i danni ambientali dell’allevamento nel costo di carne, uova e prodotti lattiero-caseari, a sfruttare il biogas per ridurre gli scarichi inquinanti e produrre energia, o l’invito a migliorare i sistemi di irrigazione, fermare la deforestazione e introdurre sistemi di coltivazione più rispettosi della terra. Meno condivisibile, semmai, è la convinzione degli estensori del rapporto che ci sia “il bisogno di accettare che l’intensificazione e forse l’industrializzazione della produzione di bestiame sia l’inevitabile esito di lungo termine del processo di cambiamento strutturale in corso per la maggior parte del settore”.
Insomma, sull’altare dell’efficienza rischia di essere immolata ogni speranza di tornare a forme di allevamento più in armonia con in ciclo naturale delle cose.

La carne non è tutta uguale
Non a caso, contro queste conclusioni si scaglia, dalle colonne dell’Ecologist di ottobre 2008, Simon Fairlie, direttore della rivista ambientalista The Land. Che oppone all’allevamento industriale le virtù di quello, per così dire, marginale (default livestock): “Molti contadini in mondo in via di sviluppo dipendono da ruminanti alimentati con erba per trazione, letame, carburante e latte (…). Sbarazzarsi di queste mucche per ridurre le emissioni di metano sfocerebbe in un aumento della fame. Per contro, sbarazzarsi del sistema Usa dei feedlots (i tipici allevamenti di ingrasso statunitensi, ndr), nei quali i manzi da carne sono ingrassati con una dieta basata sui cereali, sarebbe un beneficio per tutti”. E Richard Young, consigliere della Soil Association, nelle stesso numero dell’Ecologist (in un articolo dal titolo significativo: “Not all meat is created equal”, non tutta la carne è uguale) conclude: “I messaggi semplicistici “non mangiate carne” o “la carne rossa è nociva” rischiano di far più male che bene. C’è una crescente evidenza che un più sensato ed ecologicamente responsabile messaggio salutistico per i consumatori inglesi sarebbe incoraggiare la gente a mangiare meno carne e a mangiare carne di animali alimentati con erba; e pecore, biologiche se possibile; e polli e maiali biologici”.
Tendendo sempre in mente, aggiungiamo noi, quello che il poeta-contadino Wendell Berry scriveva già nel 1989: “Chi consuma cibo deve rendersi conto che l’atto di mangiare ha luogo inevitabilmente nel mondo, che è inevitabilmente un atto agricolo e che il modo in cui mangiamo determina in misura considerevole il modo in cui si usa il mondo”[5].
Luca Angelini

[1] La registrazione audio dell’intervento di Pachauri è scaricabile all’indirizzo http://coinet.org.uk/discussion/climate_radio/drrp. Le slides dell’intervento sono invece disponibili all’indirizzo http://www.ciwf.org.uk/includes/documents/cm_docs/2008/l/london_08sept08.pps
[2] Il rapporto è disponibile all’indirizzo http://www.fao.org/docrep/010/a0701e/a0701e00.htm

[3] Corriere della Sera, 25 settembre 2008, pagina 11.
[4] ESHEL Gidon e MARTIN A. Paula, “Diet, Energy, and Global Warming”, in Earth Interaction, volume 10 (2006), paper 9, pp. 1-17. Scaricabile all’indirizzo http://geosci.uchicago.edu/~gidon/papers/nutri/nutriEI.pdf

[5] BERRY Wendell, “Il gusto di mangiare”, in La risurrezione della rosa, Slow Food editore 2006, p.131.

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