martedì 16 febbraio 2010

Il cibo nel motore


Quando vi dicono che devono sbocciare nuove rivoluzioni verdi, magari da far germogliare grazie a semi Ogm, riflettete un attimo su quanto cibo, già oggi, finisce nei serbatoi di chi ha soldi, anziché nello stomaco di chi ha fame. Faccenda duretta da digerire. Ecco di seguito un articolo che avevo scritto tempo fa, sempre per la rivista Slowfood (nel numero 34 di giugno 2008, che aveva un'intera serie di articoli dedicati ai biofuels).
Ma vi segnalo anche quello di Nicola Borello ("Chi paga il prezzo dei carburanti verdi") nel Quaderno speciale della rivista Limes dedicato a "Il clima del G2", uscito a fine 2009, e la campagna lanciata da ActionAid "Zero meals per gallon"



Domanda: che cos’hanno in comune gli orangutan del Borneo
a corto di alberi su cui arrampicarsi, i messicani che protestano
per i prezzi delle tortillas, gli italiani che fanno lo sciopero della
pasta e i contadini colombiani cacciati dalle loro terre per far
posto alle palme da olio? Risposta: devono tutti buona parte
dei loro guai ai biocarburanti. Ma come? Proprio quelli che ci
avevano spacciato per l’alternativa pulita all’oro nero, i combustibili
“verdi”, la soluzione a tanti, se non tutti, i guasti causati
da questa umanità scellerata che sta riscaldando il pianeta fino
a mettere a rischio la sua stessa esistenza? In fondo, una volta
bruciati nei motori, i biocarburanti dovrebbero rilasciare solo la
Co2 assorbita durante la crescita delle piante usate per produrli,
senza appesantire il fardello di gas serra del pianeta. Dove
stanno dunque le controindicazioni? Non sarà la solita manovra
delle multinazionali del petrolio, pronte a truccare le carte pur
di convincerci che non c’è alternativa all’oro nero?
Purtroppo, pare proprio di no. E se l’opposizione ai biocarburanti
ha unito nello stesso fronte (nei giorni della stretta di mano fra
Bush e Lula per il patto sull’etanolo del marzo 2007) Fidel Castro
e gli ultra-liberisti dell’Economist, qualcosa di storto ci dev’essere
davvero. Tant’è che si moltiplicano nel pianeta gli appelli a prendersi
una pausa di riflessione sui biocarburanti. Una moratoria di
cinque anni, per pensarci su prima di fare passi falsi.
Problema numero uno: si calcola che, per fare il pieno di etanolo
a un serbatoio da 50 litri, servano 232 chili di mais. Quanti
basterebbero a un bambino per sopravvivere per un anno, in
un mondo in cui un bimbo sotto i 10 anni muore di fame ogni 5
secondi. Moralismo demagogico e populista, dirà qualcuno, che
obietterà che c’è poco da fare i sofisti, visto che c’è di mezzo la
sopravvivenza del pianeta. Sfortunatamente, oltre a porre qualche
indigesto dilemma etico, i biocarburanti sembrano in molti
casi non riuscire a mantenere nemmeno quanto promettono. In
altre parole, possono risultare più dannosi che utili al pianeta.
Deforestazione
Prendiamo Indonesia e Malesia. Da anni le associazioni ambientaliste
(in specie Friends of the Earth e Greenpeace) denunciano
la deforestazione in corso per far posto alle coltivazioni
di palma da olio. E la situazione è peggiorata da quando,
oltre che per scopi alimentari e cosmetici, l’olio di palma è
prodotto ed esportato, in gran parte in Europa, per produrre
biodiesel. Ma l’incendio delle foreste non è un problema solo
per le tigri di Sumatra o per gli oranghi del Borneo… Le piante
sono serbatoi viventi di carbonio, liberato nel momento della
combustione sotto forma di Co2. Altri giacimenti di carbonio
sono le torbiere che occupano vaste aree di Malesia e Indonesia.
Anche quelle sono prosciugate per fare posto alla palma
da olio (nella sola Indonesia è già capitato a oltre 10 milioni di
ettari di torbiere), ma la torba essiccata è attaccata dai batteri
e rilascia a sua volta Co2 nell’atmosfera. Il risultato l’ha ricordato
di recente John Vidal, direttore della sezione ambiente del quotidiano
britannico Guardian: «L’Indonesia risulta ormai il terzo
maggior emettitore mondiale di anidride carbonica, dopo gli
Usa e la Cina. La distruzione delle sue torbiere ammonta già a
circa il 4% di tutte le emissioni mondiali».
I soliti scettici diranno che basterebbe controllare che la palma
da olio sia prodotta senza intaccare né torbiere, né foreste. Ma,
come ha rivelato a Greenpeace in un rapporto pubblicato a novembre
2007 un grosso distributore di prodotti alimentari, non
c’è modo di verificare la provenienza dell’olio di palma, perché
gli oli provenienti da diverse regioni o nazioni, sono mescolati
insieme, prima di essere spediti via nave. Come ci si può fidare
delle rassicurazioni governative quando, come ha documentato
Lucy Williamson della Bbc in un reportage di inizio 2007, il
capo del dipartimento delle foreste del Borneo «pur sapendo
quanta terra fosse stata destinata alle palme da olio, non sapeva
quanta foresta quella terra contenesse»? Meglio allora andarci
cauti anche con le dichiarazioni del governo brasiliano che,
data l’estensione del paese, giura di poter rifornire di etanolo
da canna da zucchero mezzo mondo, senza toccare un ettaro di
foresta amazzonica. Del resto, come denuncia Conservation International,
proprio in Brasile l’80% di un altro importantissimo
serbatoio di biodiversità, il cerrado, è già stato alterato per far
posto alle coltivazioni di soia e mais. La distruzione va avanti al
ritmo di 2 milioni di ettari all’anno.
Corn in the Usa
Le cose non vanno meglio nel caso dell’etanolo “made in Usa”,
anzi (vedi primo box qui sotto). L’etanolo da mais ha reso evidente un altro fatto:
mettere il cibo nel motore non è solo un problema etico (e ambientale),
ma economico. La rivolta dei messicani per il rincaro delle
tortillas e le proteste degli italiani per il prezzo della pasta nascono
in buona misura dal fatto che l’industria dei biocarburanti ha fatto
schizzare alle stelle la domanda di granturco, l’offerta ha faticato
ad adeguarsi e i prezzi sono saliti. Visto che il mais rendeva bene,
molti agricoltori si sono messi a coltivarlo, abbandonando gli altri
cereali, come il grano, rincarati a loro volta. Se poi si considera
che più di un terzo dei cereali serve a ingrassare le mandrie, si
può capire perché rincari siano stati annunciati da mezza industria
alimentare, dai produttori di polli alla Coca-Cola (i dolcificanti dei
soft drinks sono spesso ricavati dal mais). Gli ottimisti dicono che,
gradualmente, l’offerta si adeguerà alla domanda. Intanto, come
segnala l’aggiornamento di dicembre 2007 del rapporto Crop prospects
and food situation della Fao, nonostante il raccolto record di
cereali a livello mondiale (+ 4,6% rispetto al 2006), il consumo ha
superato la produzione per la settima volta negli ultimi otto anni.
Risultato: le scorte mondiali di cereali non erano così risicate dal
1983 e sono ormai pari, in giorni, a meno di due mesi di consumo.
In un mondo in cui, a causa dei cambiamenti climatici, siccità, inondazioni
o altri disastri ambientali, con conseguenti carestie, sono
destinati ad aumentare, non è quel che si dice una bella notizia.
I soliti ottimisti diranno che alti prezzi agricoli sono una benedizione
per i contadini di tutto il mondo. Ma, da un lato, che
l’aumento dei prezzi finisca nelle tasche di chi lavora la terra, è
tutto da dimostrare. Dall’altro lato, si dà il caso che proprio nel
2007, per la prima volta nella storia dell’umanità, la popolazione
urbana nel mondo abbia superato quella rurale. Un trend che è
destinato a durare. Sfortunatamente, è proprio per gli abitanti
di slums, bidonvilles e altre periferie urbane che il rincaro dei
generi alimentari di base può fare la differenza tra il sopravvivere
e il morire di fame. Non a caso, il citato rapporto della Fao
si chiude segnalando che, nel 2007, rivolte per il cibo sono state
segnalate in Messico, Marocco, Uzbekistan, Yemen, Guinea,
Mauritania e Senegal. E si è arrivati anche al paradosso oltraggioso,
segnalato da Monbiot sul Guardian del 6 novembre 2007:
in Africa, a fine ottobre, il governo dello Swaziland ha deciso di
concedere migliaia di ettari per la coltivazione di manioca. Non
per sfamare i circa 400 000 abitanti dello Stato colpiti dalla carestia,
ma per alimentare una fabbrica di etanolo.
Insomma, quanto predetto nel luglio 2006 da Lester Brown, fondatore
del Worldwatch Institute e oggi direttore dell’Earth Policy
Institute, che cioè supermercati e stazioni di servizio sarebbero
entrati in competizione per i cereali, sta già avvenendo. Tanto
che gli anglosassoni, che adorano i neologismi, ne hanno già coniato
uno ad hoc: agfl ation, cioè inflazione di origine agricola.

La corsa ai biocarburanti
Purtroppo, il peggio deve ancora venire. L’etanolo, secondo
quanto ha scritto Harriett Williams sull’Ecologist del marzo
2007, ha coperto nel 2005 solo lo 0,8% della distanza percorsa
in quell’anno da tutti i veicoli circolanti al mondo. Ma Bush,
nel discorso sullo Stato dell’Unione 2007, ha detto di puntare a
sostituire con l’etanolo, in 10 anni, il 20% dei carburanti tradizionali.
Cosa che, come fanno notare Andrea Cappelli e Silvano
Simoni su Limes, «comporterebbe una produzione a regime
di 132 miliardi di litri di etanolo da mais, per la quale, a oggi,
sarebbe necessario disporre di 1,3 volte l’intera produzione
di mais statunitense!». Gli obiettivi dell’Unione Europea sono
appena meno ambiziosi: utilizzare il 5,75% di biocarburanti
entro il 2010. In questo caso si calcola che basterebbe “solo”
il 35-40% di tutta la terra arabile. Ma il passo successivo sarebbe
di arrivare al 20% nel 2020. Domanda retorica: ma non
sarebbe molto più sensato imporre alle case automobilistiche
standard per diminuire di percentuali corrispondenti i consumi
delle auto? Peccato che, come ha calcolato sempre Harriett
Williams, costruttori e venditori di auto Usa abbiano versato, a
partire dal 1989 (ed escludendo la campagna in corso), circa
105 miliardi di dollari nelle casse dei partiti politici americani
(per il 75% in quelle dei repubblicani) e che la Archer Daniel
Midlands, che da sola coprirebbe circa un terzo della produzione
di etanolo Usa, sia anch’essa fra i grandi sponsor del partito
repubblicano. Quanto alle case europee, si è ormai fatto
il callo al loro stracciarsi le vesti e predire collassi economici
ogni volta che Bruxelles impone vincoli anti-inquinamento ai
veicoli (in compenso è stata di recente presentata una Ferrari
a bioetanolo…).

Una moratoria di 5 anni
A questo punto, non dovrebbe essere difficile capire perché da
più parti si chieda una moratoria di cinque anni sulla produzione
di biocarburanti. Ha iniziato Monbiot, in un articolo pubblicato
dal Guardian il 27 marzo 2007. È partita poi una petizione
via internet (http://www.econexus.info/biofuels.html), sottoscritta
da centinaia di associazioni e privati cittadini. E, nel
gennaio di quest’anno, si è aggiunto al coro l’Environmental
Audit Committee della Camera dei Comuni inglese (il che non
ha trattenuto la Gran Bretagna e l’Ue dal procedere nei piani di
sviluppo dei biocarburanti).
Jean Ziegler, relatore speciale dell’Onu per il diritto al cibo, ha
chiesto la moratoria, nell’ottobre 2007, all’Assemblea Generale
delle Nazioni Unite, per mettere un freno ai rincari dei generi
alimentari di base. «L’International Food Policy Research
Institute (Ifpri)» ha ricordato Ziegler nel suo rapporto «prevede
che il numero di persone malnutrite cresca di 16 milioni
per ogni incremento di un punto percentuale nel prezzo reale
dei generi di prima necessità». E Joachim von Braun, direttore
dello stesso Ifpri, in un articolo scritto a settembre 2007 per
la Swiss Agency for Development and Cooperation, aggiunge
che «escludendo progressi tecnologici e l’adozione di regolamentazioni
basate su standard trasparenti, ci attendiamo
un aumento fra il 20 e il 40% dei prezzi alimentari da qui al
2020». La moratoria, nelle intenzioni di Ziegler, servirebbe
a concentrare la ricerca sui biocarburanti ottenuti da piante
non alimentari capaci di crescere su terreni aridi o semi-aridi,
come la jatropha o le alghe, a perfezionare le tecnologie
necessarie per i biocombustibili di “seconda generazione”
(vedi secondo box qui sotto), in cui l’etanolo è ottenuto per via cellulosica da
arbusti o scarti alimentari, e a creare le condizioni per far sì
che il business dei biocarburanti benefici davvero i contadini
e non solo le grandi corporations.
Fino ad allora, però, molto meglio continuare a mettere il cibo
nei piatti di chi ha fame, che nei serbatoi di chi ha soldi.


Di seguito i due box pubblicati a corredo dell'articolo
L’etanolo da mais
Gli studiosi concordano nel ritenere il mais la peggiore delle fonti di etanolo possibili. Considerando rese per ettaro, quantitàdi acqua e fertilizzanti necessari alla crescita ed energiaimpiegata nel processo produttivo, l’etanolo da mais rendenei motori meno di una volta e mezzo l’energia consumata perprodurlo (quello da canna da zucchero 8 volte, il biodieselda olio di palma 9). Eppure, negli Usa è in corso una vera epropria corsa all’etanolo, generosamente sussidiata dal presidenteBush, il quale si è anche premurato, alla faccia dellestrette di mano uffi ciali, di imporre una tariffa d’importazionesull’etanolo brasiliano, per metterlo fuori mercato negli StatiUniti. Bush, nel discorso sullo Stato dell’Unione 2007, ha tiratoin ballo il patriottismo e gli eroici agricoltori statunitensi chelimiteranno la dipendenza dai tanti stati-canaglia ricchi di oronero. Ma la verità l’ha forse detta ancora l’Economist, in unarticolo del 18 febbraio 2007: «L’etanolo è popolare perchéappare una opzione facile. Non richiede tasse più alte o razionamenti,fa felici gli agricoltori e fa apparire che il governostia facendo qualcosa. Purtroppo, affrontare il riscaldamentoglobale è probabile sia ben più doloroso».

Maneggiare con cura
Foglie di banana, gambi di frumento e granturco, pannocchiesgranate di mais, bagassa (la parte fi brosa della canna dazucchero). Scarti, insomma. Potrebbero essere loro i nuovi“giacimenti” di biocarburanti. A patto che si trovi un modoeconomico per ricavare l’etanolo per via cellulosica. Le potenzialitàsono enormi. Basti pensare che mentre le emissionidell’etanolo da mais nel suo intero ciclo di vita (coltivazione,produzione, trasporto e combustione) sono pari a 77 grammidi Co2 per mega Joule (quello della benzina è 94 g/MJ), perquello ricavato in via lignocellulosica sono di soli 11 g/MJ. E,trattandosi di scarti, non ci sarebbero confl itti con il mercatoalimentare. Il problema è che, per ricavare etanolo in questomodo, servono enzimi, al momento troppo costosi per rendereil procedimento economicamente competitivo. Ma esperimentiin tal senso si stanno già facendo con i pioppi in Sveziae con i salici in Nuova Zelanda.Altra frontiera è quella di utilizzare le alghe, allevate in mare oin bacini chiusi, alimentandole con scarichi fognari, per produrrebiodiesel. Anche in questo caso le rese promettono diessere altissime: fi no a 100 tonnellate di olio per ettaro, cioèquasi 250 volte la resa della soia. Ma anche qui la sperimentazioneè solo agli inizi, anche se la Shell ha annunciato, l’11dicembre scorso, l’apertura di un impianto dimostrativo nelleisole Hawaii.Certo, anche per i biocarburanti di seconda generazione irischi non mancano. Gli Ogm scacciati dalla porta potrebberorientrare dalla fi nestra, visto che già si favoleggia di enzimitransgenici e alberi geneticamente modifi cati per abbatterneil contenuto di lignina. E Craig Venter, uno dei mappatori delmenoma umano, a dicembre, nella sua Richard Dimbleby lecture alla Bbc, ha addirittura prospettato di risolvere i problemienergetici planetari creando in laboratorio batteri in grado disintetizzare carburanti da fonti rinnovabili.Inoltre, anche le piante non alimentari, come la jatropha,potrebbero rivelarsi deleterie se coltivate su larga scala damultinazionali o grandi possidenti stranieri, pronti a scacciarecon la forza i piccoli agricoltori dalla terra su cui hannomesso gli occhi.Insomma, anche i biocarburanti di seconda generazione andrannomaneggiati con cura e non certo abbandonati alla“mano invisibile” del mercato. Forse però, una volta fi ssati ipaletti giusti, potrebbero davvero diventare, come si augurano Andrea Cappelli e Stefano Simoni su Limes, «non unprodotto diabolico, che affama i poveri per dare ai ricchi ilcombustibile per i loro suv, ma un prodotto democratico, chepotrebbe consentire una vera crescita economica e sociale apaesi da sempre ai margini del mondo che conta».

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