Visto che non so che pesci prendere per cominciare, ecco un mio articolo a proposito di pesci, pubblicato sulla rivista Slowfood come presentazione di Slowfish 2009
Immaginate di essere un cercatore di funghi. E di avere a disposizione un bosco tutto per voi. Potreste senz’altro trovare funghi in abbondanza. E seguire senza sforzo il saggio precetto di ogni cercatore giudizioso: raccogliere solo quelli più grossi e lasciare agli altri il tempo di crescere. Se, però, l’anno dopo, i cercatori di funghi aumentassero, per voi comincerebbero i problemi. Per trovare la stessa quantità di funghi, dovreste svegliarvi prima il mattino e passare più ore nel bosco. Se l’anno successivo i cercatori crescessero ancora, probabilmente neanche passare più ore nel bosco basterebbe a riempire il vostro cestino. Vi toccherebbe accontentarvi di funghi più piccoli, anche se questo potrebbe mettere a rischio la loro ricrescita. E se, di anno in anno, i cercatori continuassero a moltiplicarsi, è facile prevedere cosa accadrebbe: dal bosco finirebbe per uscire la stessa quantità di funghi, ma ripartita in molti più cestini. Vale a dire che ogni cercatore tornerebbe a casa, come voi, sempre più stanco e sempre meno soddisfatto del bottino.
Poi, a causa della raccolta troppo precoce dei piccoli funghi e dei danni provocati dall’eccessiva presenza di cercatori, anche la quantità complessiva di funghi inizierebbe a diminuire. Risultato: nel bosco entrerebbero sempre più cercatori ed uscirebbero sempre meno funghi. Uno spreco di tempo, fatica e denaro.
A quel punto, se qualcuno vi dicesse che la soluzione è far entrare nel bosco molti più cercatori (magari incentivandoli con sconti sull’acquisto degli scarponi o della benzina per raggiungere il bosco) e con cestini molto più grandi, lo prendereste quasi di sicuro per matto.
Eppure, se invece di funghi si parla di pesci e di mari e oceani, invece di boschi, è proprio quello che si è scelto di fare.
Le conseguenze si possono leggere in un rapporto pubblicato nell’ottobre scorso dalla Banca Mondiale e dalla Fao[1]. Il titolo parla da sé: The Sunken Billions, ovvero “I miliardi sommersi”. Quelli persi ogni anno per il cattivo (ed eccessivo) sfruttamento della pesca.
Prima avvertenza: come indica già il sottotitolo (The economic justification for fisheries reform), nel rapporto ci si occupa solo di economia e di pesca come attività produttiva in senso stretto. Nel calcolo dei miliardi sommersi non entrano, per dire, i costi in termini di danni agli ecosistemi e alla biodiversità marina[2] (del resto, la Banca Mondiale non è, notoriamente, un covo di attivisti verdi), o quelli alla pesca turistica. Per questo, gli autori del rapporto premettono che le loro stime sono “conservative”, cioè approssimate per difetto. Seconda avvertenza: i dati e le stime della Fao, su cui si basa il rapporto, non tengono conto della pesca illegale o non registrata. Anche in questo caso, i numeri potrebbero essere dunque più “ottimistici” del dovuto[3].
Proprio per quello, fanno ancora più impressione. I miliardi di dollari buttati a mare sarebbero, per la Banca Mondiale, ben 50 ogni anno (e addirittura 2.200 dal 1974, anno del primo rapporto Fao sullo “State of marine fisheries”, al 2007). Fate due conti: al cambio attuale (1,36 dollari per euro, mentre scriviamo) fanno circa 36,7 miliardi di euro l’anno. Cento milioni di euro al giorno. Quasi 1.200 euro ogni secondo che passa mentre leggete questo articolo.
La diagnosi di Banca Mondiale e Fao è impietosa: ”La costruzione di una flotta peschereccia sovrabbondante, l’impiego di tecnologie di pesca sempre più potenti e l’incremento dell’inquinamento e della perdita di habitat hanno impoverito gli stock di pesce in tutto il mondo. A dispetto degli accresciuti sforzi di pesca, le catture marine mondiali sono rimaste stagnanti per oltre un decennio, mentre il capitale naturale di pesci – cioè la ricchezza degli oceani – è diminuita.”[4] Sembra la fotocopia del nostro bosco immaginario. Ancor di più quando gli autori del rapporto parlano delle due principali conseguenze di questa situazione: “Primo, stock di pesce impoveriti significano che c’è semplicemente meno pesce da pescare e, quindi, il costo delle catture è più alto di quel che dovrebbe essere. Secondo, la massiccia sovracapacità delle flotte, spesso descritta come “troppi pescatori a caccia di troppo pochi pesci” significa che i potenziali benefici sono dissipati attraverso gli eccessivi sforzi per pescare.”[5]
Il guaio è che, per anni, davanti alla produttività che colava a picco, si è tentato di rimanere a galla comprimendo il costo del lavoro, facondo lobbying per ottenere sussidi e investendo ancor di più in tecnologia (i famosi cestini sempre più grandi). Un buco nell’acqua. Peggio, un maelstrom, un gorgo che inghiotte risorse ecologiche e economiche. Lo dicono i numeri. Secondo la Fao, la proporzione degli stock di pesce sfruttati al massimo, sovrasfruttati, impoveriti o in ristabilimento post-impoverimento è salita dal 50 per cento del totale a metà anni Settanta, al 75% del 2005. Per contro, quella degli stock sottosfruttati o moderatamente sfruttati è scesa dal 40 per cento del 1974 al 25 per cento del 2005.[6] E se le catture sono cresciute in modo prodigioso dal 1950 (circa 19 milioni di tonnellate di pescato) al 1990 (attorno ad 80 milioni di tonnellate). Da quella data in poi, nonostante tutti gli sforzi, si sono stabilizzate, con alti e bassi, fra gli 80 e gli 85 milioni di tonnellate. C’è anzi chi, come l’accademico Daniel Pauly, ritiene che siano addirittura diminuite[7].
Negli stessi anni, il numero di pescatori è aumentato di continuo, soprattutto in Asia e Africa (mentre nei paesi sviluppati la tendenza è opposta). Tanto che si è passati da circa 13 milioni di pescatori nel 1970 a 30 milioni nel 2000. Ma, come i cestini dei nostri raccoglitori di funghi, anche le reti di ciascun pescatore si sono via via svuotate: da oltre 5 tonnellate di pescato pro capite l’anno nel 1970, si è scesi a 3,1 nel 2000: un calo del 42 per cento.[8] E, visto che assieme ai pescatori, sono raddoppiate le flotte da pesca (da circa 600 mila vascelli del 1970 a quasi un milione e 200 mila nel 2005) e si è moltiplicata, grazie al progresso tecnologico, la capacità potenziale di cattura dei pescherecci, la produttività (intesa come rapporto tra tutti i pesci che si potrebbero potenzialmente pescare, dati flotta e pescatori a disposizione, e quanto viene effettivamente pescato) si è inabissata: oggi è sei volte più bassa che nel 1970.[9]
Difficile stupirsi, allora, quando il rapporto ricorda che, “per diverse comunità, la pesca è una crescente trappola di povertà e, in assenza di alternative, una sopravvivenza da ultima spiaggia[10]”.
E che fareste voi, con l’acqua alla gola, se non chiedere un salvagente? Alcuni pescatori, in sostanza quelli dei paesi sviluppati, l’anno trovato: il rapporto calcola che, nell’anno 2000, alla pesca siano stati concessi sussidi pubblici per 10 miliardi di dollari (7 milioni e 750 mila dei quali nei paesi sviluppati), soprattutto sotto forma di sconti per il carburante e incentivi vari per il rinnovo della flotta. Peccato che anche la via che porta all’abisso sia lastricata di buone intenzioni. “I sussidi per il carburante – scrivono gli autori del rapporto – sono un esempio di trasferimento che riduce i costi della pesca. I costi ridotti fanno recuperare profitto e creano perversi incentivi a continuare a pescare di fronte a catture in calo. Il risultato è eccesso di pesca (overfishing), sovra capitalizzazione delle flotte, ridotta efficienza economica e dissipazione di risorse”[11].
I pescatori europei, in qualche caso, anche ottenuto (o preteso?) di andar, per così dire, a cercar funghi nei boschi degli altri (in Senegal,ad esempio). Una specie di colonialismo di ritorno che promette di fare non meno danni di quello che l’ha preceduto[12].
I tesori sommersi, di solito, di positivo hanno però una cosa: qualche volta possono essere recuperati. E, per la Banca Mondiale, lo si potrebbe fare anche in questo caso. “Gli odierni livelli di pescato – dice ad esempio il rapporto – potrebbero essere ottenuti con all’incirca la metà dello sforzo attuale per la pesca”[13]. E, ancora, “la pesca sostenibile può creare un surplus economico e essere un motore di crescita economica.”[14]
Ma la medicina è dura da mandar giù. I nostri cercatori di funghi, del resto, l’hanno già assaggiata: raccolta a giorni alterni, limite massimo alle quantità pro-capite, obbligo di utilizzare tecniche “sostenibili” (cestini o borse traforate per disperdere le spore, pulizia della base dei funghi, eccetera), multe per chi fa il furbo. Qualcosa di simile dovrà accadere anche per i pescatori: meno sussidi, sistemi di pesca più sostenibili e più vincoli nell’accesso a mari ed oceani (con qualcuno, ovvio, che li faccia rispettare e punisca i trasgressori[15]). Una cura da cavallo. Con l’aggravante che qui non parliamo di un hobby, ma di ciò di cui campano milioni di persone. Per questo, il rapporto della Banca Mondiale suggerisce ai governi di farsi carico degli effetti collaterali: “Le riforme implicano una riduzione negli sforzi e nelle capacità di pesca e andranno incontro a costi sociali ed economici, per cui le riforme di successo dovranno procurare reti di sicurezza sociale e opportunità economiche alternative per i pescatori che saranno colpiti.”[16]
Le pillole amare non piacciono a nessuno. Né a chi va per boschi, né a chi va per mare. Ma bisogna guardare in faccia l’alternativa: “Gli uomini potevano permettersi di trattare il mare come una risorsa infinita quando erano relativamente pochi, capaci solo di un piuttosto inefficiente sfruttamento delle grandi profondità e senza ancora l’appetito per i combustibili fossili. In un mondo di 6,7 miliardi di anime, destinate a diventare 9 miliardi nel 2050, non possono più farlo. La possibilità di una catastrofe generalizzata è semplicemente troppo grande.”[17]
Il primo passo per uscire dal vicolo cieco, dovrebbe essere dar retta agli scienziati, quando si fissano i tetti di pesca, anziché aumentarli fino al 50% rispetto alle loro raccomandazioni, come si fa d’abitudine nell’Unione Europea.[18] Ma, come riconosce John Grimond, autore del rapporto dell’Economist, “gli scienziati, comunque, non hanno il monopolio della saggezza riguardo al mare, e nessun sistema funzionerà se escluderà le conoscenze dei pescatori, ignorerà il loro benessere economico o dipenderà dalla paura delle sanzioni per ottenere la loro cooperazione. Il segreto è persuaderli che il loro interesse di lungo periodo, che coincide con quello dei pesci, scavalca quello di corto periodo, che è di estrarre anche l’ultimo pesciolino più in fretta possibile[19]”.
Anche nei boschi, chi ha la vista corta rischia di raccogliere funghi velenosi.
[1] “The Sunken Billions. The economic justification for fisheries reform”, advanced edition, ottobre 2008, scaricabile da http://siteresources.worldbank.org/EXTARD/Resources/336681-1215724937571/SunkenBillionsAdvanceWebEd.pdf
[2] Una sintesi di questi danni e della concomitante minaccia posta agli ecosistemi marini dai cambiamenti climatici si può trovare in “Troubled waters. A special report on the sea”, in The Economist, 3 gennaio 2009.
[3] Secondo Daniel Pauly, direttore del Fisheries Centre dell’Università British Columbia di Vancouver, nel 2004 le catture illegali, non registrate o non regolamentate avrebbero toccato i 30 milioni di tonnellate (circa un quarto del totale). Vedi grafico in “Troubled Waters”, The Economist, cit., p. 13. Vedi anche “Ora impariamo anche a pescare di meno”, intervista a Daniel Pauly in “Tuttoscienze”, allegato alla Stampa del 24 settembre 2008, p. II.
[4] The Sunken Billions, cit., p. IX. Questa e le successive traduzioni sono nostre.
[5] Ivi, p. XIV.
[6] The Sunken Billions, cit.,p. 2.
[7] Intervista e grafico citati, vedi nota 3.
[8] The Sunken Billions, cit., pp. 13-14.
[9] Ivi, p.16.
[10] Ivi, p. 11.
[11] Ivi, p. 18, box 2.
[12] Su questo tema, si veda il rapporto di Action Aid “SelFISH Europe”, consultabile all’indirizzo http://www.illegal-fishing.info/uploads/ActionAidSelFISHEurope.pdf e l’articolo di George Monbiot “Manufactured famine”, in The Guardian, 26 agosto 2008, scaricabile da http://www.monbiot.com/archives/2008/08/26/manufactured-famine/ . Sulla pessima politica Ue (e italiana) in tema di pesca, si veda anche “Troubled waters”, in The Economist, cit., pp.16-17, dove si ricorda che l’88% degli stock ittici europei è “overfished”.
[13] The Sunken Billions, cit., p. XIV.
[14] Ivi, p. IX.
[15] Su difficoltà e fallimenti nelle politiche di regolamentazione della pesca, vedi “Grabbing it all. In most places fisheries policies have failed completely”, in “Troubled waters”, The Economist, cit., pp. 13-15. Per un esempio virtuoso di quelle politiche, quello islandese, vedi ivi, “Un icelandic success”, pp. 15-17.
[16] The Sunken Billions, cit., p.X.
[17] “Troubled waters”, cit., p. 4.
[18] Ivi, p. 16.
[19] Ivi, p.17.
Immaginate di essere un cercatore di funghi. E di avere a disposizione un bosco tutto per voi. Potreste senz’altro trovare funghi in abbondanza. E seguire senza sforzo il saggio precetto di ogni cercatore giudizioso: raccogliere solo quelli più grossi e lasciare agli altri il tempo di crescere. Se, però, l’anno dopo, i cercatori di funghi aumentassero, per voi comincerebbero i problemi. Per trovare la stessa quantità di funghi, dovreste svegliarvi prima il mattino e passare più ore nel bosco. Se l’anno successivo i cercatori crescessero ancora, probabilmente neanche passare più ore nel bosco basterebbe a riempire il vostro cestino. Vi toccherebbe accontentarvi di funghi più piccoli, anche se questo potrebbe mettere a rischio la loro ricrescita. E se, di anno in anno, i cercatori continuassero a moltiplicarsi, è facile prevedere cosa accadrebbe: dal bosco finirebbe per uscire la stessa quantità di funghi, ma ripartita in molti più cestini. Vale a dire che ogni cercatore tornerebbe a casa, come voi, sempre più stanco e sempre meno soddisfatto del bottino.
Poi, a causa della raccolta troppo precoce dei piccoli funghi e dei danni provocati dall’eccessiva presenza di cercatori, anche la quantità complessiva di funghi inizierebbe a diminuire. Risultato: nel bosco entrerebbero sempre più cercatori ed uscirebbero sempre meno funghi. Uno spreco di tempo, fatica e denaro.
A quel punto, se qualcuno vi dicesse che la soluzione è far entrare nel bosco molti più cercatori (magari incentivandoli con sconti sull’acquisto degli scarponi o della benzina per raggiungere il bosco) e con cestini molto più grandi, lo prendereste quasi di sicuro per matto.
Eppure, se invece di funghi si parla di pesci e di mari e oceani, invece di boschi, è proprio quello che si è scelto di fare.
Le conseguenze si possono leggere in un rapporto pubblicato nell’ottobre scorso dalla Banca Mondiale e dalla Fao[1]. Il titolo parla da sé: The Sunken Billions, ovvero “I miliardi sommersi”. Quelli persi ogni anno per il cattivo (ed eccessivo) sfruttamento della pesca.
Prima avvertenza: come indica già il sottotitolo (The economic justification for fisheries reform), nel rapporto ci si occupa solo di economia e di pesca come attività produttiva in senso stretto. Nel calcolo dei miliardi sommersi non entrano, per dire, i costi in termini di danni agli ecosistemi e alla biodiversità marina[2] (del resto, la Banca Mondiale non è, notoriamente, un covo di attivisti verdi), o quelli alla pesca turistica. Per questo, gli autori del rapporto premettono che le loro stime sono “conservative”, cioè approssimate per difetto. Seconda avvertenza: i dati e le stime della Fao, su cui si basa il rapporto, non tengono conto della pesca illegale o non registrata. Anche in questo caso, i numeri potrebbero essere dunque più “ottimistici” del dovuto[3].
Proprio per quello, fanno ancora più impressione. I miliardi di dollari buttati a mare sarebbero, per la Banca Mondiale, ben 50 ogni anno (e addirittura 2.200 dal 1974, anno del primo rapporto Fao sullo “State of marine fisheries”, al 2007). Fate due conti: al cambio attuale (1,36 dollari per euro, mentre scriviamo) fanno circa 36,7 miliardi di euro l’anno. Cento milioni di euro al giorno. Quasi 1.200 euro ogni secondo che passa mentre leggete questo articolo.
La diagnosi di Banca Mondiale e Fao è impietosa: ”La costruzione di una flotta peschereccia sovrabbondante, l’impiego di tecnologie di pesca sempre più potenti e l’incremento dell’inquinamento e della perdita di habitat hanno impoverito gli stock di pesce in tutto il mondo. A dispetto degli accresciuti sforzi di pesca, le catture marine mondiali sono rimaste stagnanti per oltre un decennio, mentre il capitale naturale di pesci – cioè la ricchezza degli oceani – è diminuita.”[4] Sembra la fotocopia del nostro bosco immaginario. Ancor di più quando gli autori del rapporto parlano delle due principali conseguenze di questa situazione: “Primo, stock di pesce impoveriti significano che c’è semplicemente meno pesce da pescare e, quindi, il costo delle catture è più alto di quel che dovrebbe essere. Secondo, la massiccia sovracapacità delle flotte, spesso descritta come “troppi pescatori a caccia di troppo pochi pesci” significa che i potenziali benefici sono dissipati attraverso gli eccessivi sforzi per pescare.”[5]
Il guaio è che, per anni, davanti alla produttività che colava a picco, si è tentato di rimanere a galla comprimendo il costo del lavoro, facondo lobbying per ottenere sussidi e investendo ancor di più in tecnologia (i famosi cestini sempre più grandi). Un buco nell’acqua. Peggio, un maelstrom, un gorgo che inghiotte risorse ecologiche e economiche. Lo dicono i numeri. Secondo la Fao, la proporzione degli stock di pesce sfruttati al massimo, sovrasfruttati, impoveriti o in ristabilimento post-impoverimento è salita dal 50 per cento del totale a metà anni Settanta, al 75% del 2005. Per contro, quella degli stock sottosfruttati o moderatamente sfruttati è scesa dal 40 per cento del 1974 al 25 per cento del 2005.[6] E se le catture sono cresciute in modo prodigioso dal 1950 (circa 19 milioni di tonnellate di pescato) al 1990 (attorno ad 80 milioni di tonnellate). Da quella data in poi, nonostante tutti gli sforzi, si sono stabilizzate, con alti e bassi, fra gli 80 e gli 85 milioni di tonnellate. C’è anzi chi, come l’accademico Daniel Pauly, ritiene che siano addirittura diminuite[7].
Negli stessi anni, il numero di pescatori è aumentato di continuo, soprattutto in Asia e Africa (mentre nei paesi sviluppati la tendenza è opposta). Tanto che si è passati da circa 13 milioni di pescatori nel 1970 a 30 milioni nel 2000. Ma, come i cestini dei nostri raccoglitori di funghi, anche le reti di ciascun pescatore si sono via via svuotate: da oltre 5 tonnellate di pescato pro capite l’anno nel 1970, si è scesi a 3,1 nel 2000: un calo del 42 per cento.[8] E, visto che assieme ai pescatori, sono raddoppiate le flotte da pesca (da circa 600 mila vascelli del 1970 a quasi un milione e 200 mila nel 2005) e si è moltiplicata, grazie al progresso tecnologico, la capacità potenziale di cattura dei pescherecci, la produttività (intesa come rapporto tra tutti i pesci che si potrebbero potenzialmente pescare, dati flotta e pescatori a disposizione, e quanto viene effettivamente pescato) si è inabissata: oggi è sei volte più bassa che nel 1970.[9]
Difficile stupirsi, allora, quando il rapporto ricorda che, “per diverse comunità, la pesca è una crescente trappola di povertà e, in assenza di alternative, una sopravvivenza da ultima spiaggia[10]”.
E che fareste voi, con l’acqua alla gola, se non chiedere un salvagente? Alcuni pescatori, in sostanza quelli dei paesi sviluppati, l’anno trovato: il rapporto calcola che, nell’anno 2000, alla pesca siano stati concessi sussidi pubblici per 10 miliardi di dollari (7 milioni e 750 mila dei quali nei paesi sviluppati), soprattutto sotto forma di sconti per il carburante e incentivi vari per il rinnovo della flotta. Peccato che anche la via che porta all’abisso sia lastricata di buone intenzioni. “I sussidi per il carburante – scrivono gli autori del rapporto – sono un esempio di trasferimento che riduce i costi della pesca. I costi ridotti fanno recuperare profitto e creano perversi incentivi a continuare a pescare di fronte a catture in calo. Il risultato è eccesso di pesca (overfishing), sovra capitalizzazione delle flotte, ridotta efficienza economica e dissipazione di risorse”[11].
I pescatori europei, in qualche caso, anche ottenuto (o preteso?) di andar, per così dire, a cercar funghi nei boschi degli altri (in Senegal,ad esempio). Una specie di colonialismo di ritorno che promette di fare non meno danni di quello che l’ha preceduto[12].
I tesori sommersi, di solito, di positivo hanno però una cosa: qualche volta possono essere recuperati. E, per la Banca Mondiale, lo si potrebbe fare anche in questo caso. “Gli odierni livelli di pescato – dice ad esempio il rapporto – potrebbero essere ottenuti con all’incirca la metà dello sforzo attuale per la pesca”[13]. E, ancora, “la pesca sostenibile può creare un surplus economico e essere un motore di crescita economica.”[14]
Ma la medicina è dura da mandar giù. I nostri cercatori di funghi, del resto, l’hanno già assaggiata: raccolta a giorni alterni, limite massimo alle quantità pro-capite, obbligo di utilizzare tecniche “sostenibili” (cestini o borse traforate per disperdere le spore, pulizia della base dei funghi, eccetera), multe per chi fa il furbo. Qualcosa di simile dovrà accadere anche per i pescatori: meno sussidi, sistemi di pesca più sostenibili e più vincoli nell’accesso a mari ed oceani (con qualcuno, ovvio, che li faccia rispettare e punisca i trasgressori[15]). Una cura da cavallo. Con l’aggravante che qui non parliamo di un hobby, ma di ciò di cui campano milioni di persone. Per questo, il rapporto della Banca Mondiale suggerisce ai governi di farsi carico degli effetti collaterali: “Le riforme implicano una riduzione negli sforzi e nelle capacità di pesca e andranno incontro a costi sociali ed economici, per cui le riforme di successo dovranno procurare reti di sicurezza sociale e opportunità economiche alternative per i pescatori che saranno colpiti.”[16]
Le pillole amare non piacciono a nessuno. Né a chi va per boschi, né a chi va per mare. Ma bisogna guardare in faccia l’alternativa: “Gli uomini potevano permettersi di trattare il mare come una risorsa infinita quando erano relativamente pochi, capaci solo di un piuttosto inefficiente sfruttamento delle grandi profondità e senza ancora l’appetito per i combustibili fossili. In un mondo di 6,7 miliardi di anime, destinate a diventare 9 miliardi nel 2050, non possono più farlo. La possibilità di una catastrofe generalizzata è semplicemente troppo grande.”[17]
Il primo passo per uscire dal vicolo cieco, dovrebbe essere dar retta agli scienziati, quando si fissano i tetti di pesca, anziché aumentarli fino al 50% rispetto alle loro raccomandazioni, come si fa d’abitudine nell’Unione Europea.[18] Ma, come riconosce John Grimond, autore del rapporto dell’Economist, “gli scienziati, comunque, non hanno il monopolio della saggezza riguardo al mare, e nessun sistema funzionerà se escluderà le conoscenze dei pescatori, ignorerà il loro benessere economico o dipenderà dalla paura delle sanzioni per ottenere la loro cooperazione. Il segreto è persuaderli che il loro interesse di lungo periodo, che coincide con quello dei pesci, scavalca quello di corto periodo, che è di estrarre anche l’ultimo pesciolino più in fretta possibile[19]”.
Anche nei boschi, chi ha la vista corta rischia di raccogliere funghi velenosi.
[1] “The Sunken Billions. The economic justification for fisheries reform”, advanced edition, ottobre 2008, scaricabile da http://siteresources.worldbank.org/EXTARD/Resources/336681-1215724937571/SunkenBillionsAdvanceWebEd.pdf
[2] Una sintesi di questi danni e della concomitante minaccia posta agli ecosistemi marini dai cambiamenti climatici si può trovare in “Troubled waters. A special report on the sea”, in The Economist, 3 gennaio 2009.
[3] Secondo Daniel Pauly, direttore del Fisheries Centre dell’Università British Columbia di Vancouver, nel 2004 le catture illegali, non registrate o non regolamentate avrebbero toccato i 30 milioni di tonnellate (circa un quarto del totale). Vedi grafico in “Troubled Waters”, The Economist, cit., p. 13. Vedi anche “Ora impariamo anche a pescare di meno”, intervista a Daniel Pauly in “Tuttoscienze”, allegato alla Stampa del 24 settembre 2008, p. II.
[4] The Sunken Billions, cit., p. IX. Questa e le successive traduzioni sono nostre.
[5] Ivi, p. XIV.
[6] The Sunken Billions, cit.,p. 2.
[7] Intervista e grafico citati, vedi nota 3.
[8] The Sunken Billions, cit., pp. 13-14.
[9] Ivi, p.16.
[10] Ivi, p. 11.
[11] Ivi, p. 18, box 2.
[12] Su questo tema, si veda il rapporto di Action Aid “SelFISH Europe”, consultabile all’indirizzo http://www.illegal-fishing.info/uploads/ActionAidSelFISHEurope.pdf e l’articolo di George Monbiot “Manufactured famine”, in The Guardian, 26 agosto 2008, scaricabile da http://www.monbiot.com/archives/2008/08/26/manufactured-famine/ . Sulla pessima politica Ue (e italiana) in tema di pesca, si veda anche “Troubled waters”, in The Economist, cit., pp.16-17, dove si ricorda che l’88% degli stock ittici europei è “overfished”.
[13] The Sunken Billions, cit., p. XIV.
[14] Ivi, p. IX.
[15] Su difficoltà e fallimenti nelle politiche di regolamentazione della pesca, vedi “Grabbing it all. In most places fisheries policies have failed completely”, in “Troubled waters”, The Economist, cit., pp. 13-15. Per un esempio virtuoso di quelle politiche, quello islandese, vedi ivi, “Un icelandic success”, pp. 15-17.
[16] The Sunken Billions, cit., p.X.
[17] “Troubled waters”, cit., p. 4.
[18] Ivi, p. 16.
[19] Ivi, p.17.
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