domenica 28 ottobre 2012

Non di solo cemento vive l'uomo

Nel post precedente si parlava della “buccia della Terra” e dei costi ambientali della cementificazione dei suoli (a proposito: speriamo che il disegno di legge Monti “anti-cemento” passi indenne l’esame del Parlamento). Di recente mi è capitato di ascoltare due volte (al Festivaletteratura di Mantova e al Salone del gusto/Terra Madre di Torino) Antonio Saltini, docente di Storia dell’agricoltura all’Università statale di Milano e autore di una monumentale Storia delle scienze agrarie. E mi ha fatto venir voglia di ritornare sull’argomento. Più con le sue parole che con le mie. “Dagli anni Cinquanta in poi – ha ricordato Saltini – l’Italia si è mangiata, con il cemento, un terzo delle sue pianure fertili: due milioni di ettari su sei. La metà dei quali in Pianura Padana”. Sarà anche vero, direte voi. Ma, al posto dei campi, sono arrivati strade, capannoni, industrie, aeroporti, case. Il progresso, insomma. E, con il progresso, sono arrivati i soldi e, con i soldi, la possibilità di comprare da altri il cibo che non produciamo più noi. Giusto. Ma, secondo Saltini, quel che è stato vero fino ad oggi, non è detto che lo sarà in futuro. Basta fare qualche calcolo. Gli esperti, a partire da quelli della Fao, calcolano che, da qui al 2050, anche se la popolazione mondiale dovrebbe crescere di un terzo scarso (da 7 a 9 miliardi), per poi stabilizzarsi, la produzione agricola dovrebbe invece raddoppiare. Perché? Intanto perché quasi un miliardo di persone è ancora sottonutrita e sarebbe davvero ora di metter rimedio a questa vergogna. E poi perché la Cina, l’India, il Brasile e gli altri paesi emergenti si stanno arricchendo pure loro. E arricchendosi stanno cambiando dieta. Mangiando più carne. La Cina, per dire, è passata dai 26 chili di carne pro capite l’anno del 1990, ai 54,1 del 2007, il Brasile da 50 a più di 80 e così via (l’India è ancora in fondo alla classifica, con poco più di 5 chili a testa, ma anche lì la tendenza è alla crescita). Le calorie della carne però sono, per così dire, meno “efficienti” di quelle dei cereali: per produrre un chilo di carne di manzo, per fare un esempio, servono in media 8 chili di mais (e 15 mila litri d’acqua). Se pensate che un americano medio mangia più di 120 chili di carne a testa (un italiano più di 90) si fa presto a capire che se il miliardo e passa di cinesi arrivasse a quei livelli, la domanda di cereali esploderebbe. E con essa i prezzi e la concorrenza per accaparrarsi le derrate (o addirittura la terra, sfrattando i contadini, come sta succedendo in Africa: digitate in internet “land grabbing” per farvi un’idea). Sta già accadendo. Anche perché, nel frattempo, in Usa e in Europa s’è deciso di usare i cereali non solo per alimentare il bestiame invece delle persone, ma anche per far marciare le auto (etanolo) e produrre energia (biogas e simili). Basta produrre più cereali, direte voi. Ma non è così semplice. E’ vero che, fra il 1950 e il 2000, la popolazione mondiale è raddoppiata e la produzione alimentare è triplicata. Ma, spiega Saltini, i fattori che hanno consentito quel prodigio sono in gran parte esauriti: di terre arabili non ancora sfruttate ne sono rimaste poche; irrigare nuovi terreni con grandi progetti di sbarramento fluviale comporterebbe più danni ecologici che benefici; idem per un aumento dell’uso di fertilizzanti e antiparassitari. Resta, per Saltini, la ricerca genetica, che ha consentito la Rivoluzione verde in Messico e India e potrebbe consentirne una seconda, con gli Ogm. Su quest’ultimo punto non sono molto d’accordo con lui, ma su un altro è difficile non concordare: “E’ verosimile che negli ultimi cinque lustri l’Italia abbia coperto di cemento la superficie corrispondente ai due terzi del proprio fabbisogno di frumento tenero. Che oggi non saprebbe più dove produrre. Eravamo certi di poterlo acquistare in cambio dei nostri televisori, delle nostre scarpe, di camicie, pantaloni e piastrelle ceramiche. Oggi televisori, scarpe, camicie, pantaloni e piastrelle ceramiche, ai nostri antichi clienti le vende la Cina. Che vuole mangiare quello che, fino ad oggi, abbiamo mangiato noi”. Saltini scriveva queste righe in un articolo del 2005. Avete per caso l’impressione che, da allora, le cose siano cambiate in meglio? Postilla: da quel che ho capito, il professor Saltini non ha molta fiducia nella possibilità di un cambio degli stili di vita alimentari. Io invece credo che dovremmo iniziare a mangiare meno carne (e sprecare meno cibo) per scelta, prima di essere costretti a farlo per necessità. Sperando che cinesi, brasiliani eccetera lo considerino un esempio da imitare.

domenica 13 maggio 2012

La buccia della Terra

Chissà perché ma, se ci fate caso, dalle mele c’è sempre qualcosa da imparare. Da quella che Eva offre ad Adamo, e la Strega Cattiva a Biancaneve, a quella che Steve Jobs ha impresso sui suoi Mac, iPod, iPhone, iPad; dalla Grande Mela (la città dove pare tutto succeda prima che altrove), a quella che, se mangiata ogni giorno, si dice tolga il medico di torno. Anche questa è la storia di una mela. Una mela che va colta sì, ma più che altro come esempio. Ed è un esempio rubato (vabbè, diciamo preso in prestito) dal professor Paolo Pileri, docente di pianificazione urbanistica al Politecnico di Milano, che m’è capitato d’ascoltare di recente. Il professore ha preso, giustappunto, una mela (credo fosse una Red delicious, ma non è che faccia differenza) e l’ha divisa in quattro spicchi. Ed ecco l’esempio. “Immaginate che questa mela sia il nostro pianeta, la Terra – ha detto il professore -. Se vogliamo calcolare quant’è il suolo a nostra disposizione, tre spicchi li dobbiamo mettere da parte, perché stanno sott’acqua, coperti da mari, laghi e oceani. Dello spicchio rimasto, metà va anch’esso messo da parte, perché è coperto dai ghiacci ai poli e alle latitudini estreme. Di quel che resta, un altro 40% non è coltivabile, perché paludoso, arido, scosceso o in alta montagna”. Insomma, della mela iniziale, resta ben poco. Ma non è finita. “La parte fertile del suolo – ha spiegato Pileri – è solo quella più superficiale. Poche decine di centimetri, dove si concentra l’humus. Insomma, la buccia dello spicchio rimasto”. Da quella fettina di buccia, però, noi umani (ormai a quota 7 miliardi) dipendiamo per moltissime ragioni. Per il cibo, ovvio. Ma il terreno ha anche la capacità di assorbire acqua e anidride carbonica. E di tenere in vita ecosistemi complessi. Almeno fino a quando non viene coperto dal cemento. Perché, a quel punto, è come se un pezzetto di quella buccia ce lo mangiassimo. Una scempiaggine, direte voi. Già. Però si dà il caso che sia proprio quello che stiamo facendo. Secondo la banca dati regionale Dusaf (Destinazione d’Uso dei Suoli Agricoli e Forestali) e il Centro di ricerca sui consumi di suolo, tra il 1999 e il 2007, in Lombardia, la popolazione è cresciuta del 7,5%, ma il suolo urbanizzato (un modo più elegante per dire cementificato) è cresciuto dell’11,3%. Nella nostra regione, dice il rapporto Ambiente Italia 2011, il suolo viene consumato con una velocità di 4,4 metri quadrati per abitante all’anno. Cioè 117.000 metri quadri al giorno. Vuol dire che, di quella buccia, ci mangiamo sette piazze del Duomo di Milano al dì. E se guardiamo al nostro piccolo, nel 2010, la provincia di Mantova è stata, di gran lunga, quella che in Lombardia ha consumato più suolo pro capite: 15, 6 metri quadrati per abitante, contro una media regionale di 4,4 e nazionale di 3,9. Fra il 1999 e il 2007, la superficie antropizzata (altro sinonimo di cementificata) è cresciuta del 20%. Ecco, se la prossima volta vi dicono che della mela bisogna mangiare anche la buccia, sappiate che dipende dalla mela.

venerdì 13 gennaio 2012

Carne della nostra carne


Chissà come se la passa, in queste ore, Danica May Camacho? Mentre leggete queste righe starà forse poppando. E’ nata il 31 ottobre dell’anno scorso, in un ospedale di Manila, capitale delle Filippine. Perché dovrebbe importarvi di Danica? Semplice, lei è stata simbolicamente scelta dalle Nazioni Unite come “seven billionth baby”, la bambina numero sette miliardi. Tanti siamo, ormai, noi bipedi umani su questo pianeta.
Ogni volta che aumentiamo di un altro miliardo, lo spettro di quella buonanima del reverendo Thomas Robert Malthus torna a fare capolino. E con lui la fosca previsione contenuta nel suo “Saggio sul principio della popolazione” (1798), secondo la quale quest’ultima era destinata a crescere molto più rapidamente dei mezzi necessari a sostentarla (per i più pignoli: le bocche sarebbero aumentate in progressione geometrica, gli alimenti in progressione aritmetica).
Anche i primi vagiti di Danica May Camacho hanno risvegliato i profeti di sventura: “Siamo troppi, non ci sarà abbastanza cibo per sfamare tutti”.
La Fao, poche settimane più tardi, ha invece spiegato che anche nel 2050, quando dovremmo essere 9 miliardi e passa (e i demografi dicono che, visti gli attuali tassi di fertilità/mortalità, è probabile che non si andrà oltre, con buona pace di Malthus) si potrà sfamare l’intera umanità. A patto, però, di produrre il 70% in più di cibo, rispetto ad oggi. Per dire, un miliardo di tonnellate l’anno in più di grano, riso e altri cereali e 200 milioni di tonnellate aggiuntive di carne.
Mica facile, se si pensa che, secondo un altro recente rapporto della stessa Fao (1), il 25% della terra coltivabile è “altamente degradata” (erosione dei suoli, scarsità idrica, perdita di biodiversità); un altro 8% è “moderatamente degradata”, il 36% è stabile e solo un 10% è in miglioramento. Se poi pensate che si possa pescare dal mare quel che non si riesce a coltivare sulla terra, sappiate che, secondo uno studio di Boris Worm e altri, pubblicato nel 2006 dalla rivista Science (2), se i ritmi di pesca restassero quelli attuali, il 2048 sarebbe l’anno dell’ultimo pesce, ovvero del collasso di tutti gli stock ittici esistenti (per farvi un’idea dell’ecatombe marina in atto potete dare un’occhiata al documentario di Robert Murray “Al capolinea”, pubblicato in dvd+libro da Feltrinelli Real cinema e Slow Food).
Dunque, a distanza di due secoli e mezzo, il reverendo Malthus finirà per avere ragione? Mica tanto. Perché, a dirla tutta, il vero problema non è la mancanza di cibo. Se è vero che, già oggi, 925 milioni di persone soffrono la fame, un miliardo e 328 milioni soffrono di iper-nutrizione. La fame uccide 36 milioni di persone l’anno (5,6 milioni dei quali bambini sotto i 5 anni), ma le malattie connesse a obesità e dintorni non sono da meno: 17,5 milioni di morti l’anno per malattie cardiovascolari, 7,9 per tumori, 3,8 per diabete.
In termini di calorie, molti esperti concordano nel dire che, già oggi, se ne producono abbastanza per sfamare non 7, ma 12 miliardi di persone. Come mai non finiscano nelle bocche giuste, è un problema complesso. Ma uno dei tanti motivi è, ad esempio, che il 40% del mais mondiale e oltre il 90% della soia non finiscono in stomaci umani, ma in quelli di polli, maiali e manzi. Perché a noi la carne piace e non ci vogliamo rinunciare. Eppure qualche rinuncia non dovrebbe essere difficile se, come ha calcolato Caroline Davies dell’Observer, un inglese, nell’arco della sua vita, mangia in media l’equivalente di 8 manzi, 36 pecore, 36 maiali e 550 tra polli, galline e affini. E in Italia? La Fao dice che ne mangiamo 92 chili l’anno a testa: più di quattro volte le quantità consigliate. Per produrre un chilo di carne di manzo si emettono 36,4 chili di Co2 (il principale dei gas serra responsabili dei cambiamenti climatici: tant'è che secondo il rapporto Fao "Livestock's long shadow" l'allevamento produrrebbe il 18% del totale dei gas serra, cioè più del sistema dei dei trasporti) e si consumano 15.500 litri d’acqua (contro i 900 necessari per un chilo di mais).
Perciò, se un mondo di 7 miliardi di persone vi risulta indigesto, non chiedete la ricetta al reverendo Malthus. Piuttosto, cambiate alla svelta il vostro menù. Danica May Camacho vi ringrazierà.

(1) The State of the World’s Land and Water Resources for Food and Agriculture (SOLAW), 2011
(2) Worm, et al. (2006) "Impacts of Biodiversity Loss on Ocean Ecosystem Services". Science, 314 (5800): 787-790.

lunedì 10 ottobre 2011

Taxi ad olio (di frittura)



Sono tutti e due inglesi che più inglesi non si può. Tutti e due emblemi riconosciuti della capitale britannica. Ma, adesso, hanno qualcos’altro in comune. Fish and chips e london cabs. Ovvero, il famoso (famigerato, giurano molti) piatto di pesce e patatine fritte e i classici taxi neri di Londra. Ebbene, la novità è che, dopo aver sfamato generazioni di londinesi, il fish and chips ha iniziato ad alimentare anche chi quei londinesi porta a spasso da decenni. I london cabs, appunto.
Come potete leggere qui, qualcuno ha trovato il modo di convertire l’olio di frittura dei ristoranti in biodiesel per far marciare i taxi.
Mentre, per molti motivi, utilizzare terre arabili per coltivarci piante adatte a produrre biocarburanti è quasi sempre una pessima idea (soprattutto se quelle piante potrebbero essere direttamente usate per l’alimentazione, come il mais: per maggiori dettagli, date un’occhiata su questo blog al post “Il cibo nel motore”), sfruttare un prodotto di scarto dà senz’altro una marcia in più. Soprattutto se contribuisce a risolver un altro problema: ogni anno, la Thames Water, società che si occupa dei servizi idrici a Londra, spende 12 milioni di sterline per liberare le fognature dagli ingorghi. Causati, quasi sempre, dal grasso degli oli usati. Oltretutto, anche la glicerina che si ricava convertendo l’olio in biodiesel viene riutilizzata, per fare saponi.
Per il momento, sono solo due le aziende che a Londra producono biodiesel con l’olio di frittura (“chip fat oil”). Servirebbero più incentivi fiscali e più attenzione da parte delle case automobilistiche. Ma se si pensa che, in Cina, si producono ogni anno circa 60 milioni di tonnellate di olio di frittura (spesso riutilizzato per friggere di nuovo, con effetti deleteri sulla salute), i margini di crescita non mancano di sicuro. E poi, come dice lo slogan di una delle aziende produttrici “non è una soddisfazione sapere che il carburante della tua auto era già servito per friggerti le patatine?”.

venerdì 19 agosto 2011

La dieta Pollan


L’estate sta finendo. E, con essa, finirà una delle ricorrenti torture di stagione: la prova costume. Con annessa processione di diete, consigli utili ed esercizi per dimagrire. Che siate riusciti o no a far superare al vostro corpo lo stagionale tributo alla società dell’apparire, non è mai troppo tardi per dedicarsi un poco all’essere. Insomma, per pensare ad una dieta che ci faccia davvero stare meglio. E faccia magari star meglio anche il pianeta.
Perché, ci abbiate mai pensato o no, il modo in cui mangiamo cambia in mondo in cui viviamo. Giusto per fare un esempio, se pretendiamo di mangiare carne tutti i giorni, ci saranno sempre più allevamenti intensivi, sempre più cerali e soia verranno usati non per sfamare gli umani, ma per ingrassare polli, manzi e maiali, sempre più nitrati finiranno nelle acque di fiumi e mari e via dicendo. Wendell Berry, poeta-contadino americano, scriveva già nel 1989: “Chi consuma cibo deve rendersi conto che l’atto di mangiare ha luogo inevitabilmente nel mondo, che è inevitabilmente un atto agricolo e che il modo in cui mangiamo determina in misura considerevole il modo in cui si usa il mondo”.
Per usare bene (o almeno un po’ meglio) il mondo e fare, allo stesso tempo, del bene a noi stessi, eccovi allora una dieta buona per tutte le stagioni. La copio, spudoratamente, da un libro: “In difesa del cibo” (edito da Adelphi) del giornalista americano Michael Pollan (del quale, se avete un minimo di interesse per quel che vi finisce nel piatto, dovreste assolutamente leggere “Il dilemma dell’onnivoro”). La regola aurea di Pollan sta tutta in una sola frase: eat food, not too much, mostly plants. Tradotto: mangiate cibo, non troppo, principalmente vegetali. Che non sia salutare (e nemmeno tanto morale) mangiare troppo e che i cibi di origine vegetale abbiano meno impatto sul pianeta di quelli di origine animale (per dirne una, servono oltre 15 mila litri d’acqua per produrre un chilo di carne di manzo, solo 1.600 per un chilo di pane e 2.500 per un chilo di riso) è abbastanza risaputo.
Quel che forse vi sorprenderà è il primo consiglio: “mangiate cibo”. Suona ovvio, giusto? Il fatto è che Pollan distingue fra il “vero cibo” e quelle “sostanze simil-alimentari” che ormai popolano gli scaffali di ogni supermercato. Cibo in tubetti, in scatola, disidratato, liofilizzato, pronto da infilare nel microonde, da sciogliere in acqua o far saltare in padella. Con un elenco di ingredienti da mettere in difficoltà uno studente di chimica.
I consigli che Pollan dà per riconoscere il vero cibo dal resto sono spassosi, ma non vanno presi sul ridere. Eccone qualcuno: “Non mangiate nulla che la vostra bisnonna non avrebbe riconosciuto come cibo”. “Non mangiate niente che sia incapace di marcire”. “Evitate i cibi che proclamano effetti salutistici”. “Evitate i prodotti alimentari con ingredienti che siano: 1) non familiari; 2) impronunciabili; 3) in numero superiore a cinque; 4) includano lo sciroppo di glucosio”.
Se volete capire meglio le ragioni di questi consigli, vi toccherà leggervi il libro. Nell’attesa, c’è però qualcosa che potete fare subito: la prossima volta che tornate dal supermercato con la spesa, controllate quanto di quel che avete comprato rientra nei criteri di Pollan. Meno è, più avete urgente bisogno di una dieta di “vero cibo”.

lunedì 6 giugno 2011

Il festival del letame



Da 24 al 26 giugno, al caseificio Santa Rita di Serramazzoni (Mo), si terrà il 3° Festival del letame. Per info e programma: http://www.caseificiosantarita.com/.



Io ci sono stato l'anno scorso. Quello che segue è una specie di reportage, che spero vi faccia venir voglia di andarci






Verrebbe da citare De André: “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”. Ma forse val la pena di scavare un poco più indietro nel tempo. Fino a un aureo libretto del 1869, Catechismo agricolo ad uso dei contadini, opera di don Giovanni Rizzo, parroco di Salboro, nel Padovano. Uno che predicava come “coltivare la terra senza violentarla”. “Lo scrigno del contadino – scriveva convinto don Giovanni - è il letamaio”.
Possibile? Davvero “il secreto dell’agricoltura” starebbe tutto nell’aver letame a buon prezzo, come insegnava il parroco padovano? Non è invece un guaio, un impiccio, un fardello di cui, fra direttiva nitrati e costi di smaltimento, è dura sbarazzarsi, tutta questa montagna di sterco, cacca o deiezioni, come più vi aggrada chiamarla? Il letame puzza, il letame inquina, il letame ingombra (e nemmeno si sa se porti fortuna pestarlo). Non è forse sempre stato così?
Beh, non proprio. “Ai tempi di don Rizzo, e fino a qualche anno fa anche nelle scuole di agraria, lo chiamavano “il burro nero”, tanto era prezioso” – s’infervora Graziano Poggioli. Che, tempo addietro, quando era assessore all’agricoltura della Provincia di Modena, ebbe l’ardire di dedicare al letame addirittura un festival. Le prime due edizioni le hanno fatte a Lama Mocogno. Poi si sono trasferiti qui, al caseificio Santa Rita di Pompeano di Serramazzoni, sempre nel Modenese, dove siamo venuti a ficcare il naso. Nel frattempo, grazie a Poggioli e a Stefano Fogacci, è nata anche la “Comunità del letame”, che ha debuttato a Terra Madre nel 2008.
“Il festival del letame – ci racconta Poggioli, tra un gnocco fritto e un borlengo spennellato di lardo e Parmigiano Reggiano – è nato come provocazione. Per far riprendere coscienza, a contadini e allevatori, dell’importanza che ha il letame. E’ il cibo della terra, come abbiamo scritto sui volantini e i cartelloni qui al festival”.
Ma se il letame è il segreto dell’agricoltura, qual è il segreto di un buon letame? Per scoprirlo, ci tocca lasciare tavola, gnocco fritto e borlengo e seguire il buon Graziano po’ più in là, nel prato. Davanti ad alcuni tazebao colorati, con slogan che di sicuro anche il parroco-agronomo di Salboro avrebbe benedetto (“Curare la terra per guarire gli uomini”; “La terra è viva e ha bisogno di buon cibo”) ci sono due tavole con i campioni raccolti per la “disfida del letame”. Perché, qui al festival, ogni anno viene premiato chi produce quello migliore. Mister Letame, più o meno. Stavolta la sfida è a tredici: le nove aziende bio che conferiscono il latte al caseificio Santa Rita, più qualche altra della zona.
Ci avviciniamo guardinghi, temendo d’essere stesi da una zaffata pestilenziale. Ma Poggioli ci rassicura: “Il letame puzza solo quando è fresco, per via dell’ammoniaca. Quando è bello maturo, invece, profuma di bosco e sottobosco. E non sporca nemmeno le mani”.
Per farla breve, abbiamo dovuto fare i San Tommaso: annusare e tastare con mano. “Ma quello buono si vede già ad occhio – giura Graziano -. Dev’essere bello scuro e, se ha un bel po’ di lombrichi dentro, tanto meglio”. Quanto al tatto, la parola magica è “colloidale”: “Quando lo si stringe nel pugno, non deve sbriciolarsi, deve invece formare una palla compatta, quasi gommosa”.
La prova del nove, però, è quella dell’acqua. In testa ad uno dei due tavoli, ci sono tre caraffe. Nelle prime due, il liquido è ormai torbido. Nella terza no, anche se si nota qualcosa di scuro sul fondo. “Ho fatto tre palline di letami diversi e le ho messe a mollo per qualche ora – spiega il nostro letamologo -. Più l’acqua rimane limpida, migliore è il letame. Vuol dire infatti che, nel campo, resterà a lungo nei primi 30-40 centimetri di terreno, invece di finire nelle falde profonde alla prima pioggia”.
Il campione migliore dei tre (che sarà anche il vincitore finale 2010) è quello preso dal “cumulo biodinamico” messo in bella mostra di fianco alle due tavole. La preparazione era iniziata l’anno prima, in occasione del festival 2009, con il letame di tre aziende socie del caseificio Santa Rita (Fratelli Poggioli, Elide Giberti e Bio San Carlo). Su un cartello piantato nel mucchio c’è anche la lista degli ingredienti: letame, paglia e, sorpresa, achillea, quercia, camomilla, tarassaco, ortica e valeriana. “Sono preparati biodinamici dinamizzati, un po’ come nell’omeopatia – spiega Poggioli -. Vengono spruzzati sul cumulo e servono per migliorare il processo di fermentazione”.
Ma quanto ci vuole, per avere un letame così? “La cosa più importante è rivoltarlo spesso, sennò si forma una crosta all’esterno, mentre dentro si formano le muffe, per la troppa umidità. Se lo si gira spesso, possono bastare nove mesi. Altrimenti almeno un anno”.
Magari, azzardiamo, è per quello che nessuno lo fa più. Non è una faticaccia? “In Australia e Nuova Zelanda – ribatte Poggioli – le macchine per rivoltare il letame e fare i cumuli biodinamici le hanno già inventate. Non è tanto un problema di fatica, è un problema culturale. Il letame, ormai, da noi è criminalizzato. Per gli agricoltori, il problema non è di utilizzarlo, ma di smaltirlo, perché è considerato un rifiuto, non una risorsa. E chi contadino non è, quando vede un cumulo di letame quasi si scandalizza. Ma, invece di arrabbiarsi, dovrebbe esserne contento: vuol dire che lì ci sono ancora contadini capaci di fare il loro mestiere”.
Ma non saranno più comodi i fertilizzanti? “Il problema è che, a forza di chimica, i suoli perdono in fertilità. Il terreno diventa solo un substrato fisico per il concime chimico. Per quanto, ancora, potremo andare avanti su questa strada, a preoccuparci solo della quantità per ettaro e non della qualità? Dobbiamo riappropriarci delle tecniche agronomiche. Purtroppo, con la specializzazione esasperata è saltato anche il corretto rapporto fra terreni e capi allevati: in molte zone ci sono troppi capi e pochi terreni, in altre il contrario”.
Qualche segnale di speranza, però, c’è. “Un produttore di Barolo – racconta Poggioli – ha convinto un gruppo di giovani agricoltori a metter su un’aziendina per fornirgli il letame di cui ha bisogno per le vigne”.
E, anche se potrebbe non sembrare la materia più solida per costruirci sopra un’intera filiera, quelli della Comunità del letame ci stanno provando. A pochi passi dal cumulo biodinamico, i casari del Santa Rita stanno tirando fuori da una caldera in rame una forma di Parmigiano da stagionare. “E’ fatta di solo latte di Bianca Modenese – spiega Poggioli – la razza che, assieme a Slow Food, stiamo cercando di salvare. E’ dura, perché per ora siamo sotto i mille capi e dovremmo arrivare ad almeno 3-4 mila. Con il latte delle Bianche, produciamo solo tre forme al giorno, una qui al Santa Rita e due al caseificio Rosola di Zocca. Ma teniamo duro, speriamo di riuscire a fare come i nostri vicini, che la Rossa Reggiana, l’altra razza storica del Parmigiano, ormai l’hanno salvata, anche grazie al formaggio”.
Appena ci fanno assaggiare una scaglia del loro stravecchio di 90 mesi, chiediamo commossi se ci si possa iscrivere a un fan club della Bianca. Sarà stato il Parmigiano, o il lambrusco Grasparossa biologico: ma, mentre salutiamo Graziano e il festival, ci ronza in testa non De André, ma Sergio Endrigo: “Per fare un albero, ci vuole il seme, per fare il seme, ci vuole il frutto, per fare il frutto ci vuole un fiore”. Che cosa ci voglia per fare un fiore, ormai l’avrete capito.

giovedì 21 aprile 2011




SQUALI E SQUALLORI




Sembra facile, distinguere i buoni dai cattivi. Se vedeste un tizio che fa il bagno e la pinna di uno squalo che emerge dalle onde, avreste dubbi su chi sia il buono e chi il cattivo della situazione? Beh, forse dovreste. Perché, di questi tempi, ad essere in pericolo è il possessore della pinna. E proprio per colpa di noi umani.
Uno dei motivi sono, giustappunto, le pinne. Dopo che Mao l’aveva messa al bando bollandola come una “raffinatezza borghese”, in Cina è tornata a spopolare la zuppa di pinne di squalo. In particolare per matrimoni, ricevimenti e altre celebrazioni. Si crede sia afrodisiaca e un segno di ricchezza. E siccome i cinesi sono più di un miliardo, i risultati sulla popolazione mondiale di squali non si sono fatti attendere. Nella Red List della Iucn (che indica tutte le specie a rischio di estinzione) sono oggi considerati in pericolo il 25% degli squali che vivono nelle acque profonde, il 35% di quelli delle acque più superficiali e più di metà di quelli oceanici.
Siccome la carne di squalo sui mercati internazionali si vende da 1 a 7 euro al chilo, mentre le pinne possono andare da 90 a 300 e, una volta fatte seccare al sole, sono oltretutto molto più facili da conservare e immagazzinare, è sempre più diffuso il cosiddetto “shark finning”. Una pratica barbara (se siete forti di stomaco, potete vedervi qualche filmato su YouTube), che consiste nell’issare a bordo gli squali, tagliar loro le pinne e ributtarli in mare, spesso ancora vivi, per lasciarli morire. Così si possono, oltretutto, aggirare i limiti sulle quote di pescato.
Per avere un’idea della vastità del fenomeno, secondo il gruppo ambientalista Oceana la sola Hong Kong importa dieci milioni di chili di pinne di squalo ogni anno, da 87 paesi diversi, in particolare Spagna, Singapore e Taiwan.
E visto che gli squali, essendo predatori, stanno in cima alla catena alimentare e hanno un importante ruolo di regolazione delle specie marine, la loro diminuzione sta già provocando sconquassi. Gli oceani ormai pullulano di sardine, aringhe e acciughe, il cui numero è più che raddoppiato negli ultimi 100 anni, e il motivo è da ricondurre alla scomparsa dei grossi predatori dei mari come, appunto, squali, tonni e merluzzi, vittime della pesca incontrollata. Uno scenario che preoccupa non poco gli scienziati, visto che questi pesci si nutrono di plancton e che la loro proliferazione potrebbe avere conseguenze catastrofiche sulla catena alimentare marina, aumentando il rischio di una sovrapproduzione di alghe, che impediscono agli oceani di “respirare”.
Tornando al nostro bagnante e al nostro squalo dell’inizio, la rivista The Ecologist ricordava di recente che almeno 100 milioni di squali vengano uccisi ogni anno, mentre negli ultimi due anni si sarebbero contati circa 80 attacchi di squali contro l’uomo, solo 3 dei quali mortali. Il che non vuol certo dire non provare compassione per le vittime umane. Semmai, provarne un po’ di più anche per la controparte. Del resto, Peter Benchley, autore del libro “Jaws”, da cui Steven Spielberg ha tratto il film “Lo squalo”, quattro anni fa, poco prima di morire, parlando da membro del National Council of Environmental Defense, aveva ammesso: “In una nuova versione di Jaws, lo squalo non sarebbe il cattivo, ma la vittima. Lo sarebbe perché, nel mondo, gli squali sono molto più oppressi che oppressori”.


P.S.: se pensate che sia tutta e solo colpa dei cinesi, sappiate che, a livello mondiale il contributo dei prodotti ittici alla nostra dieta ha raggiunto l’ammontare record di quasi 17 kg a persona, fornendo il 15 per cento dell'apporto medio di proteine animali a oltre tre miliardi di persone. Secondo l’ultimo rapporto Fao su Lo stato della pesca e dell'acquacoltura nel mondo (Sofia 2010), il consumo di pesce arrivato al suo massimo storico fa sì che la percentuale complessiva di stock ittici oceanici sfruttati in eccesso, esauriti o in fase di ricostituzione si attesti alla preoccupante soglia del 32%, leggermente più alta rispetto al 2006, senza quindi registrare alcun miglioramento.